Alchimie linguistiche in Andrea Camilleri
“ Non è solo una questione di cuore, è anche di testa, testa e cuore”. Con tali incisive parole Andrea Camilleri rispondeva a Tullio De Mauro nel corso di un’intervista fattagli circa la sua decisione di ricorrere all’uso del dialetto nei suoi romanzi . Il dialetto è, infatti, per Camilleri “ la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare” e, d’accordo con Pirandello egli afferma che “il dialetto di una cosa esprime il sentimento mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto”.
Il ricorso al dialetto è, dunque per A. Camilleri una questione molto articolata, è il ritorno alle radici, al suo retroterra affettivo che affiora prorompente in un amalgama “di cuore” e “ di testa”, di sentimento e ragione . Tocca a quest’ultima selezionare parole dialettali lontane dall’italiano che fanno capolino dal suo io dove sono profondamente incise. Camilleri dunque riconosce il dialetto come lingua più icastica dell’italiano convinto assertore, con Pirandello, che “ certe cose non possono che chiamarsi e dirsi in dialetto” e precisamente nel dialetto che più si avvicina alla lingua italiana ossia quello girgentano. Nelle opere di Camilleri, dunque, il dialetto è un ritorno alle origini, un ripercorrere con la memoria, pur essendo vissuto lontano dalla Sicilia, la sua infanzia, la sua adolescenza in compagnia dei suoi cari e i ricordi sembrano prendere forma in un mosaico di termini dialettali che connotavano, in un tempo lontano, il suo “ lessico famigliare”. Ecco allora la scelta della scrittura dialettale nei suoi romanzi e il ricorso al “vigatese” concorde con Tullio De Mauro che la parola del dialetto è sempre “incavicchiata alla realtà” come in :
“Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa”
o in: “ Il non ancora decino Gerd Hoffer ad una truniata più scatasciante delle altre che fece trimoliare i vetri”,
o ancora in : “ Gerd si susì allo scuro illuminato dai lampi e principiò un’incerta caminata verso il retré”
“E intanto taliava dalla finestra bassa verso Vigata e il suo mare, distante da Montelusa qualche Km.
“ Mi permette una parola? Spiò da una poltrona dove stava a leggersi il giornale il preside Antonino Cozzo”
Il suo non è un dialetto ma un “ idioletto”, un nuovo idioma , egli inventa un nuovo codice linguistico manomettendo con abilità il siciliano e facendo uso di una lingua che muta, talvolta, anche nell’ortografia sempre alla ricerca di una sua melodia. Più volte l’abile Camilleri ricorre a una serie di espedienti per chiarire il significato di una voce siciliana come si nota nel seguente sintagma :
“ …riunì le dita della mano destra a cacocciola , a carciofo …”
in cui il Nostro fa seguire il lessema italiano esplicativo di quello siciliano.
A molte parole, poi, Camilleri assegna significati diversi da quelli comuni, reinventando letteralmente la lingua così una parola come “scatàscio” cambia significato da guaio a “gran fracasso” seguendo la musicalità delle lettere piuttosto che la propria etimologia.
Già da un’analisi accurata dei suddetti sintagmi relativi al romanzo “Il birraio di Preston” che non è uno dei romanzi del Commissario Montalbano, si evince che non si tratta di mere trascrizioni dal dialetto ma che la sua è un’operazione più articolata filologicamente . Camilleri ricorre ad una strategia di scrittura che, pur nel mescolarsi di stili e registri, evidenzia fondamentalmente un’identità stilistica e in cui la sostanza della lingua rimane quella dell’italiano standard. Si tratta di un continuo oscillare tra italiano e dialetto o, per dirla con Marina Castiglione di “un fitto e continuo codemixing in cui sembra non esserci confini prestabiliti tra italiano e dialetto”. I lessemi dialettali, però, lungi dal costituire una stonatura nel tessuto letterario, vi si amalgamano con sinuosa omogeneità .
L’uso del dialetto nelle opere letterarie ha, d’altra parte, una lunga tradizione letteraria da Verga a Pirandello a Sciascia a Bufalino a Consolo ad Alessio Di Giovanni . In particolare quest’ultimo, in una conferenza tenuta sull’arte del Verga, dopo avere dimostrato che in certe particolari opere d’arte non si potesse fare a meno di usare, invece di “una lingua snervata ed esangue”, “ il dialetto gagliardo e vergine” asserì che l’arte del Verga avrebbe attinto la perfezione suprema “ se egli, invece di ricorrere a quella forma ibrida che spesso non è né italiano né siciliano, avesse scritto I Malavoglia nel linguaggio immaginoso dei suoi umili personaggi”. Verga rispose che mai avrebbe fatto parlare in siciliano i suoi personaggi perché ciò avrebbe ristretto le sue opere in un ambito limitato e non le avrebbe aperte ad una prospettiva nazionale. Ma allora c’è da chiedersi: come mai l’opera di Camilleri ha varcato i confini nazionali ed internazionali pur con le sue innovazioni linguistiche ? Già Sciascia quando Camilleri sottopose alla sua attenzione il romanzo “ Un filo di fumo “ ebbe a dirgli: “Bello è bello ma ci metti certe parole… “.
L’autore de “ Il giorno della civetta” si mostrò dunque palesemente perplesso di fronte alle sue scelte linguistiche ed anche Consolo, a ben guardare, polemizza con lui accusandolo di portare il dialetto ad un livello estremamente basso . In Camilleri, però, il ricorso al dialetto è quasi vitale poiché egli sente che il suo italiano ha un respiro corto e forse la fonte del suo successo è proprio il vigatese, quella sapiente operazione linguistica che è spontanea e colta al tempo stesso. E’, infatti, leggendo Ruzzante e Goldoni, Belli e Porta che Camilleri scopre il magico universo espressivo del siciliano ma risolutivo per la sua scelta linguistica fu il padre morente a cui l’autore narrò la storia del suo romanzo “ Il corso delle cose” che da tempo aveva in mente ma che non aveva preso forma concreta perché gli veniva difficile scriverla in italiano. Il consiglio del padre di scriverla così come l’aveva raccontata a lui fu illuminante per Camilleri che, dopo aver riflettuto a lungo, cercò di trovare un equilibrio nel modo di raccontare, equilibrio che poteva essere rotto dalla scelta delle parole in lingua perché “ dovevano essere parole con la stessa valenza, la stessa massa della parola del dialetto”. Il suo vigatese è dunque frutto di una lunga elaborazione linguistica, di un lungo esercizio che non si è mai arrestato, neanche oggi. Il Nostro parte da una struttura molto solida in lingua italiana cui succede il lavoro dialettale. Non si tratta però di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole per arrivare ad un impasto unico, ad un amalgama così sapientemente equilibrato che non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Risolutiva, inoltre, nella sua scelta linguistica, la traduzione in siciliano del “Ciclope” di Euripide fatta da Pirandello. Quest’ultimo fa parlare il Ciclope come un grosso massaro che adopera, nel rivolgersi ad Ulisse il lessema “gramusceddu”, perché davanti a lui Ulisse è un esserino neonato. Ulisse, invece, adopera un siciliano fatto di una meravigliosa “commistione fantasiosa” e a questa traduzione pirandelliana Camilleri si ispira per il personaggio di Catarella. Egli cerca, tout court, di riportare quel divertimento che ha provato nel leggere la traduzione di Pirandello, nella sua scrittura, convinto assertore che, nelle parole, nella costruzione di una frase dialettale ci sia un ritmo che non ha un equivalente nell’italiano . Sua preoccupazione è pertanto ritrovare lo stesso ritmo del dialetto nella lingua italiana. Con un’alchimia degna di un bravo chimico egli dosa dunque opportunamente la lingua arrivando ad una composizione autentica e irrepetibile. La sua è una sinfonia delle parole ora in italiano ora in siciliano che, accostate l’un l’altra creano un ritmo nell’ambito della frase che concorre ad una piacevole resa letteraria che fa del suo linguaggio un’opera d’arte unica nella sua poliedricità. Il Nostro, dunque, si pone il problema di racchiudere la parola in un bozzolo sonoro, erede, in questo rapporto tra suono e senso, di Dante che definisce l’Italia come “Il bel paese dove il sì suona” e di Petrarca che si pone il problema del ritmo della parola nel testo.
Da questa analisi della lingua di Camilleri non si può non notare il contributo che Camilleri ha dato nel far “volare in alto” nel mondo la nostra cultura siciliana dando prova non solo della potenza espressiva di una lingua, emblema dell’identità e della passionalità di un popolo, ma del ritmo e del colore che tale sicilianità comporta . Il suo è, un intrigante melànge italo – siculo che innesta nella lingua letteraria lessemi puramente siciliani a lessemi “ibridi” che non trovano riscontro nel parlato quotidiano del siciliano come nei seguenti sintagmi tratti dal romanzo “ La mossa del cavallo “:
˂˂ I fedeli abituali lasciarono tutti la chiesa cizzion fatta di Donna Trisina Cicero , la fimmina che aveva tussiculiato , la quale se ne ristò in ginocchio [….] Trasì cautelosa . La luce primentia del giorno le bastò per assicurarsi che nel locale non c’era anima criata “. Proprio allato al grande armuàr di piscpàino dove stavano i paramenti …˃˃.
In questo mixare registri linguistici diversi si potrebbe ravvisare una certa somiglianza con “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana “ di Carlo Emilio Gadda ma, a ben guardare la somiglianza è molto più apparente che reale . In Gadda, infatti, i registri linguistici sono veramente molteplici, in Camilleri, invece, la sostanza linguistica rimane quella dell’italiano standard da cui fanno capolino termini siciliani ed ibridi che conferiscono, quasi come in una partitura musicale, un ritmo ascendente –discendente al discorso che mantiene però, sostanzialmente, una sua identità stilistica. L’operazione letteraria che Camilleri compie, dunque, è personalissima e la sua tecnica scrittoria, nella sua icasticità, è una vera e propria opera d’arte o come è stata definita “un’opera artigianale “ irrepetibile ed unica.
Mariza Rusignuolo
Bibliografia
- Camilleri, T. De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Laterza, Roma-Bari 2013 .
A. Camilleri , Il corso delle cose ,Palermo, Sellerio, La memoria 1998,pp.141-142.
A. Camilleri , Il birraio di Preston , Palermo , Sellerio 1995
A. Camilleri “La mossa del cavallo” – Rizzoli 1999
A. Camilleri ,Un filo di fumo , Palermo, Sellerio, 1997
L. Pirandello, “ Teatro siciliano?”, in Andrea Camilleri , Pagine scelte di Luigi Pirandello, Milano, Rizzoli, 2007, p.131 e ssg.
L. Sciascia , Del rileggere, in Cruciverba, Adelphi,Milano1998