Le Vite che Nessuno Vede
Racconti di Eliane Brum
Nata in Brasile, Eliane Brum – giornalista free lance, documentarista, reporter, autrice di numerosi reportage sul Brasile e la foresta amazzonica, vincitrice di importanti premi nazionali e internazionali – è l’autrice della raccolta di racconti dal titolo Le vite che nessuno vede.
Pubblicato da Sellerio (con la traduzione di Vincenzo Barca), il testo è il frutto di diversi articoli apparsi nel tempo su una rubrica del giornale Zero Hora. Un lavoro ammirevole, testimonianza di vite invisibili, vissute ai margini della società, nelle periferie più recondite, al limite di tutto, perfino di ciò che può chiamarsi vita.
Le storie sono ambientate in Brasile o meglio, come dice la Brum, nei Brasili, tanto diverse e variegate sono le realtà di questo paese. Sono racconti che strappano dagli occhi (e dal cuore) l’immagine stereotipata che noi abbiamo del Brasile, identificato solo, o perlopiù, con “carnevale e calcio”, “favelas e violenza”.
Quando la giornalista e la romanziera si fondono in una sola persona la narrazione non può che essere avvincente. Lucidità, sintesi e approfondimento, tipici della scrittura giornalistica, si sommano all’armonia, alla sensibilità e a un lessico capace di far espandere il racconto oltre la pagina scritta.
Personalmente apprezzo la prosa scritta da giornalisti, ne assaporo sfumature che ai romanzieri puri, spesso, mancano. Alberto Moravia, Oriana Fallaci, Tiziano Terzani e, in ultimo, Davide Camarrone sono, per me, esempi di ciò che intendo.
In questa raccolta, Ileane Brum si mette all’ascolto degl’interlocutori, sembra faccia un’intervista, in realtà non fa nessuna domanda, piuttosto – come già detto –semplicemente ascolta; raccoglie le storie mantenendo il più possibile la voce autentica di ogni narratore. Ma, attenzione, non si tratta di monologhi. Di quegli “sfoghi”, oltre alle parole pronunciate, l’autrice riporta le immagini più vivide, il significato più profondo, tanto che di quelle esistenze si percepiscono la delusione, la nostalgia, l’attesa di un futuro migliore mai arrivato, l’impotenza del disarmato davanti a un’arma puntata addosso, ma anche di lunghe battaglie e piccole vittorie per la sopravvivenza, di tradizioni rimaste immutate grazie all’isolamento.
In perfetto equilibrio tra coinvolgimento e obiettività, la Brum ci mostra anche gli scenari, la foresta amazzonica, i fiumi, le montagne del sud… il sangue delle pinete, un paesaggio che palpita di fauna: i caimani dagli “occhi fiammeggianti” che non fanno paura perché “Loro mangiano solo cani e sandali”, i pappagalli arara, le mandrie delle enormi fazendas; e ancora i personaggi con i loro mestieri, come il matto Vanderlei Ferreira che non è mai andato a scuola, ma frequenta la facoltà di zootecnia, le levatrici della foresta che”… praticano oggigiorno per lo più la religione cattolica, alcune hanno abbracciato il movimento. Altre ancora praticano lo spiritismo e il candomblé. Anche quando invocano un dio cristiano maschile, lo spirito santo o gli orixá, si dichiarano sempre guardiane di un mistero, trasmesso loro da madri e nonne, in una catena che si perde nei secoli.” Molte di queste hanno subito il rogo al tempo dell’Inquisizione…” “… in qualche modo conservano nelle ossa il calore dei roghi”.
La stessa Eliane, nell’introduzione al libro, dice: “Essere giornalista, o giornalista come sono io, vuol dire vestire la pelle dell’altro. La pelle dell’altro è il linguaggio.”
Ed ecco la magia, il lettore stesso si trasforma in ascoltatore, sente la Brum, mentre l’eco restituisce la viva voce dei perdenti; ci si ritrova così davanti al mangiatore di vetro che l’autrice ci presenta con queste parole: “Jorge Luiz Santos de Oliveira, così battezzato trentacinque anni fa, aveva un sogno: guadagnarsi da vivere mangiando il vetro. Perché mangiare il vetro è la sua arte. È quello che da subito ha differenziato Jorge dalla massa triste di tutti i Jorge, dalla lunga fila di contadini di São Jerônimo, terra di carbone, scura, dal gusto pungente. Masticando quel terreno pietroso, Jorge Luiz scoprì che era un essere unico al mondo, nonostante lo stesso volto malinconico, la stessa pelle tesa sulle ossa. Masticando pietre per spaventare i vermi che gli risalivano dalle viscere, preparò il terreno per la sua arte. E a chi rigurgitava pietre, il vetro non faceva paura.” Ed anche (nel racconto Madri vive di una generazione morta), la voce delle donne che raccolgono i soldi lavorando per comprare le bare ai figli maschi che, sanno già, moriranno assassinati, vittime della “narcopatria”; e ancora le tante voci dei ricoverati in una casa di riposo della quale leggiamo: “C’è qualcosa di tragico nel cancello di ferro dell’ospizio São Luiz. Contrariamente alla maggioranza, l’istituto è pulito, decoroso e pieno di attenzioni. Ma, come tutti gli altri, è l’ultimo indirizzo, un rifugio inventato per tenere nascosto chi non ha un posto nel mondo ed è stretto tra il progresso della medicina, che gli ha permesso di arrivare fin lì, e una società che valorizza solo la gioventù” e ancora “Lunghe corsie in cui la demenza può essere un destino migliore della lucidità.” Ne emerge uno spaccato di vite vissute che, pur lontane dalla nostra realtà europea, civilizzata e agiata, narra, nell’essenza, degli stessi soprusi, dei sogni infranti, delle prepotenze subite, della povertà irreversibile, la vita vera di chi rimane relegato ai margini della società, da Nord a Sud, da Est a Ovest, a ogni latitudine, ogni parallelo.
La Brum coglie l’aspetto più significativo e universale di ogni storia, lo stesso che – pur essendo sotto i nostri occhi – “nessuno vede”.
Adelaide J. Pellitteri