Rappa Liboria
“Devi parlarne con papà.”
“Papà è morto ventitré anni fa. Cosa stai dicendo?”
Mia sorella Margherita, seduta di fronte a me in salotto, ascoltava le mie lamentele sulla gente che non dà mai risposte chiare, che sarebbero così tanto più semplici per tutti. E trovava soluzioni bizzarre.
“I morti non vanno via. Rimangono tra noi finché hanno questioni sospese. Papà ne ha tante di questioni sospese… Io sono andata a raccomandargli la sanatoria edilizia di casa mia e lui ha risolto il problema.”
Ascoltavo, come faccio sempre, le sue strambe filosofie che mescolano tante cose e si ricompongono in un discorso comprensibile, di delirante razionalità. E anche piacevoli da seguire, perché no.
“I morti non sono tutti uguali. Per esempio, la mamma è dappertutto, ci segue, si interessa. Papà no. A lui piace che lo si vada a trovare sulla sua tomba.”
“Non so dove sia la tomba di papà, non ci sono mai andata, non mi piace andare al cimitero.”
“È un bellissimo posto. Non ha voluto essere seppellito nella tomba di famiglia. Come un vero lupo di mare, ha chiesto di stare da solo, in terra comunale, tra cielo, montagna e mare. È una scarpinata, ma poi c’è un panorama spettacolare. Ti accompagno se vuoi…”
Ci organizzammo. Mi spiegò che bisognava portargli le cose che gli piacevano da vivo, le sigarette Muratti, il cannolo, il caffè. E fiori, naturalmente, e una candela.
“Quando saremo lì devi chiedergli quello che desideri, è bravo in questioni di lavoro, a me ha sciolto burocrazie che erano bloccate.”
Andammo in motorino, ridendo. Comprammo i dolci, il caffè, i fiori. Ci arrampicammo sulle pendici della montagna. Davanti a noi il mare aperto.
Non c’era niente di triste. Era un terrazzamento dove alcune croci e alcune lapidi si alternavano, un po’ sconnesse, i cespugli erano cresciuti disordinatamente tra le sepolture. Quella di mio padre, a modo suo, era una tomba allegra, una semplice croce circondata da una natura esuberante, un luogo solitario e sereno.
“Sulla croce del Comune con le date e i numeri ho messo la sua fotografia, non è una bella foto, sembra arrabbiato.” A me non sembrava arrabbiato.
Seguendo le indicazioni della strega di famiglia parlai a mio padre del libro, dell’anno di fatica, di ricerche, di coinvolgimento nella storia che volevo raccontare. Degli editori con cui avevo avuto contatti, le risposte negative e quelle peggiori, le non risposte, i silenzi.
Margherita disponeva la candela, i fiori, il bicchierino con il caffè. “Perché non gli canti una canzone, gli piaceva tanto…” E io cantai, sentendomi ridicola. Continuavamo a ridere, come facciamo da tutta la vita.
A un certo punto. “Marghi, hai visto la faccia della vicina di tomba di papà? Anche lei ha una fotografia!”
Rappa Liboria: la faccia tonda e scura di una donna avanti negli anni, con i baffi, gli occhi piccoli e neri, lo sguardo pieno di riprovazione, fisso, severo, puntato su di noi e su di lui, una fotografia in bianco e nero scattata chissà quando da un vecchio fotografo di paese.
“Oh poverino! Lui che era un seduttore, che amava le donne bionde, morbide ed eleganti… Rappa Liboria, che lo guarda così da ventitré anni! E non me ne sono mai accorta! Menomale che sei venuta tu …”
Ormai ridevamo con le lacrime. Raccogliemmo fiori e frasche, riempimmo di verde due vasi per creare uno schermo tra papà e Liboria.
“Guarda, ora papà sorride.”
Aveva ragione. Sembrava proprio che la fotografia sorridesse.
Le vicende del libro migliorarono. Incontrai una persona che apprezzò il mio lavoro, e mi presentò un’altra persona, anch’essa favorevole. Cominciai a riscrivere, e a riscrivere ancora, correggendo, contenta dei giusti consigli che arricchivano il risultato, gratificata dell’attenzione di persone serie e competenti.
Con mia sorella continuavamo ad andare a fare visita a papà.
Ogni volta il rito, con fiori, caffè, cannolo, e la canzone che gli piaceva.
Ogni volta ricostruivamo lo schermo verde che lo proteggeva dallo sguardo nero e appuntito di Rappa Liboria. Il nostro lavoro non addolciva lo sguardo truce della donna ma, ogni volta, la fotografia di papà sorrideva.
Alcune volte ci andavo da sola. Il rito mi rasserenava. Mi sembrava di avere risolto il rapporto, burrascoso e conflittuale, che avevo avuto con mio padre da vivo.
Riflettevo, come non avevo mai fatto, sulle difficoltà di quest’uomo, rigido e tradizionalista, e su di noi, la sua famiglia, formata da tre donne indipendenti, autonome, “anarchiche” diceva, e da un cane sempre agitato.
Mi sedevo sulla terra umida, a primavera sull’erba, mio padre e io fumavamo insieme, vedevo consumarsi la Muratti appoggiata su un sasso, e se una brezza faceva brillare la brace sembrava davvero che ci fosse qualcuno, invisibile, che aspirasse il fumo.
Qualche volta andavo perché ero di cattivo umore. Avevo problemi di lavoro, mi sentivo disorientata, sola. La passeggiata, il panorama del mare e della montagna, le parole a mio padre che mi facevano riflettere, mi erano di conforto. Gli chiedevo aiuto. “Papà, dammi una mano, insegnami la pazienza e la fiducia.” E la foto sorrideva.
Un saluto a Liboria, a volte una parola di scuse, sempre l’attenzione a schermarla, a renderla inoffensiva. Andavo via sollevata.
L’ultima volta sono tornata a primavera, non andavo da alcuni mesi.
Aprile, un’esplosione di colori, di sole caldo, di mare blu, di montagna rosa.
Quando sono arrivata alla fine della salita non ho riconosciuto il posto.
Era stato tutto spianato, non c’erano più le croci, le lapidi sconnesse, i cespugli che mi erano diventati così familiari. Il terrazzamento era stato suddiviso in piccoli lotti regolari. Allineate, tutte uguali, nuove lapidi bianche e lucide, con la data degli ultimi mesi. Anche le foto, colorate e inquadrate in piccole cornici ovali. Niente più fiori nelle bottiglie di plastica, c’erano solo vasi in pietra della stessa forma e misura.
Erano scomparsi tutti, la croce di mio padre e la sua foto che cambiava espressione. La lapide di Liboria e il suo sguardo nero. Scomparsi sotto le ruspe della burocrazia che gestisce il terreno comunale.
Ho cercato tra i rettangoli tracciati sul terreno nudo, tra i pochi ciuffi d’erba che ancora restavano ai margini. Ho trovato qualche pezzo di marmo, la foto in bianco e nero di una persona sconosciuta buttata di lato, un’immaginetta umida.
Dall’erba ho preso un pezzo di marmo vecchio, con due lettere ancora leggibili “SO”. Certo non era quella di mio padre, ma mi è sembrato quanto di più vicino potessi trovare.
Mi sono seduta per terra, nel posto che, più o meno, aveva occupato per tanti anni. Ho acceso la Muratti e una sigaretta per me, ho posato un fiore, il cannolo e il caffè e non ho saputo cosa dirgli.
In silenzio abbiamo fumato insieme, poi sono andata via, frastornata.
Sotto il cimitero c’è una piccola spiaggia di ciottoli, poco frequentata perché difficilmente raggiungibile.
Ho percorso il sentiero fino al bordo del mare e mi sono distesa al sole.
“Polizia giornali vergogna” tuonava mia sorella.
“Aspetta, ho un amico al Comune, era dirigente dei cimiteri. Forse sa qualcosa, forse può consigliarci.”
Andammo a mangiare una pizza con Gabriele che ci spiegò il mistero.
“Una storia di ordinaria burocrazia” disse sorridendo. E guardandomi “Proprio tu non dovresti sorprenderti, sai come sono gli enti pubblici. Quella zona del cimitero è stata interdetta al pubblico per vent’anni: caduta massi. È un campo comunale che avrebbe dovuto essere liberato, come prevede il regolamento, ogni sei anni. Ma, per colpa delle frane, nessuno ci ha messo più piede. Tranne, ovviamente alcuni, come voi, che avevano le sepolture dei loro cari e che hanno visto, nel tempo, crescere fiori e cespugli. A volte nessuna manutenzione permette alla natura di fare le cose più belle…”
Era così elegante Gabriele, rendeva tutto accettabile.
“Sì, va bene, e poi cosa è successo?”
“Hanno messo in sicurezza la parete di roccia. Allora sono arrivate le ruspe e hanno tolto tutte le vecchie sepolture e hanno messo quelle nuove …”
“E quelle vecchie?”
“Ah, c’è la fossa comune… Lascia che mi informi però.”
Ero ammutolita per l’orrore.
Mentre Gabriele telefonava dando numeri e nomi a qualche suo fedele ex dipendente, io li immaginavo tutti insieme alla rinfusa, mio padre, Liboria e tanti altri… Anche Margherita taceva.
“C’è una buona notizia. Vostro padre non è con gli altri. Vostra madre aveva fatto domanda di un loculo e, grazie a questa richiesta, adesso è in una cassettina in deposito in lista d’attesa per un posto…”
“Vista mare!” fu subito pronta mia sorella. “Ci teneva moltissimo a vedere il mare. Non prendiamo niente che non abbia la vista del mare!”
È lei che interpreta i desideri dell’aldilà.
“Noi scriviamo che rimanga in deposito fino a quando non si libera un posto come piace a lui.” E guardando me aggiunse “Tanto è contento. Almeno si è liberato di Liboria!”
“Ma poverina Liboria…” dissi, sinceramente dispiaciuta.
“Tranquilla, è contenta pure lei. Ha un sacco di altra gente da criticare.”
Gabriele chiuse il discorso sospirando “Vi aiuto a scrivere al Comune.”
Siamo ancora in attesa che si liberi un posto come piace a lui. O a lei. Intanto Margherita ha arredato un altarino in un angolo discreto di casa sua. Ha messo una foto e una candela e gli portiamo il cannolo e le sigarette come sempre. Sembra contento, la foto sorride, lui ascolta le nostre richieste e spesso le esaudisce.
Quando avrà un loculo vista mare organizzeremo una festa. Stavolta gli compro una cassata.
Vorrei invitare Liboria ma non so come fare.
Agata Bazzi
Mi è piaciuto molto. Perché non lo continui? O forse vuoi che rimanga così, un ricordo un breve racconto o una notazione critica sull amministrazione della nostra città o ????