Recensione “Tessere di Luce”
In una citazione tratta dal “Discorso sulla poesia”, Quasimodo afferma: “La posizione del poeta non può essere passiva nella società; egli modifica il mondo. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione… Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente.”
Questa asserzione si può allargare all’artista in generale, e allo scrittore in particolare, è riduttivo circoscriverla al poeta. La differenza tra lo “scrivente” e lo “scrittore”, per dirla come Elsa Morante, sta proprio in questo: ossia nella capacità dello scrittore di entrare in una relazione così profonda con la realtà che lo circonda, da individuarne impietosamente le lesioni, e di servirsi della scrittura come di un raggio di luce che, illuminandole, permette di estirparle. Quindi lo scrittore non si appiattisce sui dettami imposti dalla società in cui vive, ma al contrario, ad essi si contrappone.
Da qui il titolo dato all’antologia “Tessere di luce”: le autrici Antonella Chinnici, Alessandra Colonna Romano, Daniela Musumeci, con il contributo di Vito Lo Scrudato, percorrono un cammino all’interno della letteratura siciliana, dal Duecento fino ad oggi, inanellando, uno dopo l’altro, i contributi che ciascuno degli scrittori selezionati ha dato, al fine della ricostruzione delle caratteristiche e dei mali dell’epoca in cui ha vissuto. Si tratta di un excursus che tiene conto anche dell’evoluzione del dialetto siciliano, essendo grande parte della produzione letteraria isolana scritta in vernacolo.
È proprio Dante il primo a valorizzare la lingua siciliana, che nasce dall’intersezione di lingue diverse, essendo il linguaggio dei primi abitanti dell’isola, di cui parla Tucidide nel V a.C., ossia Sicani, Elimi, Greci della Focide, Siculi, Fenici, venuto a contatto con quello dei popoli che di volta in volta si insediavano nell’isola, dai greci ai romani, agli arabi, ai normanni, agli aragonesi. La mescolanza tra tutte queste culture ha dato vita a fenomeni di calchi, prestiti e innesti linguistici che costituiscono il tratto saliente del dialetto siciliano, che è, “dal punto di vista strettamente linguistico”, una lingua, nel senso che sia lingua che dialetto presentano uno strutturato sistema lessicale, morfologico e sintattico. Volendo essere più precisi, potremmo parlare, mutuando l’espressione coniata dal De Mauro, di un “sistema linguistico” polifonico, dato che «non esiste “un” siciliano, ma tante varietà all’interno della nostra regione (così come all’interno di altre regioni italiane) che dicono di come, a seconda della lente con cui si guardano e si analizzano i fatti di lingua, sia sempre possibile individuare più varietà e differenze locali fino a spingersi, volendo estremizzare, all’idioletto del singolo individuo.»
Tornando a Dante, il poeta fiorentino nel “De vulgari eloquentia” scrive: “il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano”. Il lusinghiero giudizio espresso dal Sommo sulla lingua siciliana ha sicuramente “addossato un crisma di sacertà” alla Scuola Poetica Siciliana, nata nel Duecento alla corte di Federico II a Palermo, e alla Sicilia, “che nell’immaginario collettivo assurse a indiscussa patria natia della vera poesia e cultura italiana, visto il legame indissolubile innestato da Dante tra cultura e lingua della poesia in Italia con la corte palermitana”.
Se con l’Unità d’Italia il siciliano resta la lingua prevalentemente parlata nell’isola, a causa dell’analfabetismo diffuso, dalle due guerre mondiali fino al dopoguerra si assiste al fenomeno di italianizzazione del dialetto di Sicilia, che avrà come conseguenza l’elezione della lingua italiana a lingua del riscatto sociale, e la relegazione del siciliano agli ambiti della comunicazione familiare e quotidiana.
Saranno proprio gli intellettuali a sottolineare l’importanza del recupero delle tradizioni culturali siciliane, in particolare del dialetto. Per tutti ricordiamo Ignazio Buttitta e i versi in cui scrive: “Un populu / diventa poviru e servu / quannu ci arrobbanu a lingua / adduttata di patri: / è persu pi sempri.”
Nella ricostruzione della storia della letteratura siciliana, le autrici dell’antologia seguono filoni tematici, e citano gli scrittori che si sono distinti nella trattazione del tema preso in disanima di volta in volta.
Così mettono in risalto in che modo negli anni, a partire dal Duecento fino ai nostri giorni, siano stati affrontati dagli autori presi in considerazione temi come l’amore, spirituale ed erotico; le memorie storiche, personali e collettive; le ricostruzioni fantastiche e le visioni oniriche e simboliche; i frammenti di vita quotidiana, tenendo conto della realtà contadina, che è stata per lungo tempo il tessuto connettivo dell’isola, e di quella dei migranti; fino ad arrivare al ruolo eversivo che hanno assolto intellettuali come Sciascia, e “compagni e compagne di strada” come Falcone e Impastato, giusto per fare qualche esempio, denunciando le ingiustizie sociali e contrapponendosi alla mafia, la cui esistenza è stata a lungo negata perfino dalle istituzioni.
Leggiamo: “La mafia non era e non è, dunque, un cancro o una piovra, ma un tessuto di poteri, un costume mefitico che impregna una malintesa insularità: un’insularità che non è indice di purezza e di apertura agli approdi, ma stolida chiusura in un orgoglio immotivato. Caustiche le parole del Principone a Chevalley: i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria”.
Da sottolineare come le autrici dell’antologia citino come rappresentanti della letteratura siciliana non solo uomini colti, ossia padroni della lingua, soprattutto scritta, come, per fare qualche esempio, Giacomo da Lentini, l’inventore del sonetto, Pirandello, Verga, fino ad arrivare a Camilleri e a De Caro, ma tengano conto anche della produzione dei cosiddetti “semicolti”, secondo la definizione data da Francesco Bruni, ossia di una produzione autobiografica, redatta da “autori semianalfabeti”, come Rabito e Bordonaro, “che, pur tuttavia, si sono cimentati in questa grossa impresa, desiderosi di consegnare alla carta stampata le loro memorie e il loro vissuto.” Il merito di questa lingua semicolta, caratterizzata da interferenze di altre lingue, dialettali e non, è quello di raccontare la Storia siciliana con gli occhi delle classi subalterne.
In questa antologia viene dato ampio spazio alle donne: dalla prima poetessa d’Italia, Nina Siciliana, vissuta nel Duecento, a Mariannina Coffa, che si servì della scrittura per contrapporsi alla società retrograda dei suoi tempi, che imponeva alla donna di non imparare a leggere e a scrivere, ma di occuparsi soltanto della casa e della famiglia; da Maria Fuxa a Goliarda Sapienza, fino ad Evelina Santangelo e Dacia Maraini, giusto per citarne alcune. Tutte accomunate però dall’essere donne “imperdonabili”, per usare un’espressione coniata dalla poetessa Cristina Campo, cioè donne che entrano in contrasto con i tempi in cui vivono, essendo molto avanti rispetto ad essi, e che quindi non possono fare a meno di assolvere attraverso la scrittura un impegno culturale e sociale.
L’antologia è molto interessante e ben curata. I temi scelti, la dovizia e la meticolosità delle autrici dell’antologia nel narrare la storia dei letterati, nello stralcio e nella parafrasi dei brani riportati, permettono al lettore di conoscere approfonditamente la mentalità siciliana di allora e di oggi, data la stretta connessione esistente tra la lingua, la letteratura e la storia dei popoli.
Da leggere.
Ornella Mallo