Apparenza, realtà e illusoria realtà

Vi è mai capitato di camminare d’estate in campagna e di esservi trovati alcune formiche sulle braccia senza che vi siate avvicinati al terreno per prendere o fare qualcosa o senza che abbiate sfiorato una pianta?

Le formiche che osservate per terra non hanno le ali, eppure ve li siete sentite sulle braccia all’improvviso, senza averle viste prima volare né planare dolcemente sulla vostra pelle.

Apparenza o realtà?

In effetti, c’è una fase del ciclo biologico in cui alle formiche di alcune specie crescono le ali ed è quella del ciclo sessuale e della riproduzione. Le formiche, maschi e femmine, si levano in volo e le femmine, in questo tour nuziale, raccolgono nella loro sacca lo sperma di diversi maschi. Finito il volo nuziale, il maschio morirà dopo qualche giorno mentre la femmina regina realizzerà il suo piano per la continuazione della specie.

Ma le formiche che vedete sulle vostre braccia non hanno le ali. E allora?

Le apparenze possono essere rivelazioni molto prossime alla realtà oppure possono essere ciò che ci appare ma in completa difformità dalla realtà, con tutti i gradi intermedi possibili. Non intendo riferirmi a rituali e percezioni mediate da sciamani o ad alchimie propiziate da maghi o da baronetti di estrazione anglosassone capaci di generare eventi prodigiosi ma a fatti dell’ordinaria vita quotidiana che nel corso di un’esistenza possono assumere nella nostra percezione sembianze discoste dalla realtà ma che a noi sembrano la realtà.

Anche nella percezione e nell’individuazione del divino, l’apparenza ha accompagnato da sempre l’uomo che nel passato in essa ha voluto trovare la manifestazione imponderabile e a volte volutamente indefinibile del Vero e quindi attribuire a essa una natura partenogenetica positiva che gli permettesse di legare la propria esistenza al divino. In tale partenogenesi, l’uomo aveva la consapevolezza della reale esistenza del divino e delle divinità perché a loro riconduceva le sembianze umane ma anche virtù, passioni e vizi della vita terrena, nella vita vera e vissuta. Questa traslazione di attributi creava divinità antropomorfe, con le funzioni di un super io costruito dall’uomo per proiettarvi tutte quelle facoltà impossibili per lui o a lui imperdonabili, proprio per la sua natura umana, e a cui affidava il determinismo delle sue venture positive e negative. In tal modo, l’uomo contraeva un legame deterministico forte con la divinità che l’orientava per conferire peculiarità di verità e di realtà alla divinità stessa, cioè a ciò che era imponderabile e indefinibile ma che in tal modo poteva interagire con azioni finalisticamente comprensibili e valutabili dall’uomo nelle vicende terrene.

L’uomo di oggi, nel mondo di tipo occidentale, ha eletto la razionalità a metodo e ne ha assunto i principi a guida del proprio io, ha rivisto il legame con il divino rinunciando ai principi di quella partenogenesi che ne avevano fatto nel passato un alleato o un avversario e gli ha attribuito un ruolo di giudice supremo con delega a intervenire sugli accadimenti terreni in casi estremi, con i miracoli. Nei fatti, l’uomo ha tranciato il legame metafisico con la divinità. In tale contessuto, anche la divina provvidenza manzoniana rimane in ombra e la sua abilità nell’indirizzare le azioni umane verso la suprema volontà divina del bene appare sbiadita.

Nelle manifestazioni di vita reale dell’uomo, la sua capacità sensoriale creativa può partire da processi che utilizzano i ricordi veri che poi subiscono la suggestione di proiezioni immaginifiche della realtà con la formazione di apparenze ingannevoli.  Contribuisce anche il supporto di associazioni di idee, non necessariamente derivate dal reale, che travalicano il nostro livello di coscienza, ponendoci in condizioni di manifesta inferiorità per l’impossibile interazione cosciente con quegli automatismi che possono procedere in autonomia.

In quelle circostanze l’apparenza è la rappresentazione di ciò che non è, di un’irreale che, facendo riferimento anche a ciò che realmente è stato, diviene percezione ingannevole della realtà, appunto apparenza.

Il pretendere che ogni nostro atto, ogni nostra espressione psichica debba transitare dalla nostra coscienza è un errore oppure un’illusione.

Forse, sarebbe più semplice parlare del determinismo psichico, riferendoci direttamente a Sigmund Freud che per primo ha indagato su questi concetti, suggerendo le vie attraverso le quali alcuni processi mentali possono diventare inconsci e relazionarsi a eventi del passato, anche a nostra manifesta insaputa. Nella mente umana, come nei sogni, nulla avviene per caso e l’inintelligibilità della concatenazione causale esprime l’inabilità della nostra mente comprensiva e non esclude il legame tra ciò che è o appare con ciò che è stato.

Se lo storage dei dati acquisiti avviene nella nostra mente in maniera cosciente, con una percezione modulata in funzione della velocità di acquisizione, la loro rielaborazione profonda operata dal nostro cervello potrebbe anche portare alla emergenza mnemonica di apparenze e realtà che, se inizialmente ingannevoli, potranno essere ricondotte alla loro stretta essenza solo se rigorosamente sottoposte al cribro della ragione.

Aristotele sostenne che “non tutto quello che appare è vero” (Metafisica, IV, 5, 1010 b 2). In tale visione, l’apparenza, ciò che di un fenomeno si mostra ai nostri sensi e al nostro intelletto, può divenire per l’uomo una tesi da dimostrare, attraverso l’analisi delle sue fondamentali, della casualità, e della reciprocità percettiva tra ciò che è e ciò che non è.

René Descartes (1596-1650) applicò il metodo come ricerca oggettiva per pervenire alla “realtà”, sia come apparenza dei fenomeni che si mostrano alla nostra valutazione (realtà fisica) sia come realtà assoluta (realtà metafisica), non contaminabile da contributi esterni, che nell’estrema perfezione identificava con Dio. La ricerca del metodo per distinguere il vero dal falso non è solamente teoretica ma ha inerenze nelle scienze matematiche e nella vita pratica.

Nella nostra quotidianità, il fenomeno, quanto si presenta alla nostra osservazione o si manifesta con l’esperienza, è sottoposto a un vaglio neuronale sostenuto dalla logica, come sintesi di esperienza, di intelletto, solo in parte ponderabile, e conoscenze, ponderabili. La ponderazione è discernitiva e ci consente, con una metodicità acquisita con l’esperienza, di accostarci alla verità e ci aiuta a comprendere quanta di realtà c’è nelle apparenze oppure quanto di ingannevole vi si nasconde.

Questo processo si muove dalla ricerca della realtà che, pur potendo essere qualcosa di obiettivabile, non è sempre dimostrabile. La verità ci parla dell’essenza accurata delle cose e, anche rinunciando a trattarla nella sua più complessa essenza ontologica, diviene più prossima alla nostra comprensione se proviamo a contestualizzarla nelle esperienze di vita comune in riferimento all’attività umana, ma anche in questa il “vero” per essere dimostrato e riconosciuto necessita di prove che debbono sottostare a regole rigorose che richiedono, talvolta, uno svolgimento ispirato da una verifica scientificamente filosofica. Significa che le prove possono avere una consistenza dimostrativa tecnicamente scientifica ma anche ideativa quando i pensieri sono messi in un ordine logico e oggettivamente correlati alle nostre percezioni.

Nemmeno la letteratura si è sottratta alla valutazione della scelta nell’individuare ciò che è apparente e ciò che è vero e reale.

Luigi Pirandello (1867-1936) nelle sue opere insegue le apparenze, con le loro convenzioni e con i loro illusori inganni, per perseguire il vero, quella realtà che ingannevolmente percepiamo come statica ma che è inviluppata in una dinamica che ne modifica continuamente il profilo. Un moto che interessa anche il proprio io nel suo mostrarsi e nel fissare una maschera con la quale si vuole apparire all’esterno, uno dei motivi portanti in Uno, nessuno e centomila.

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita…[1]

Eugenio Montale (1896-1981), nel dedicare i versi alla sua amata Drusilla, le dichiara il suo imperituro affetto aggrappandosi alla realtà e rinnegando le apparenze:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.[2]

Anche l’Amor che nullo amato amar perdona[3] del Sommo Poeta può offrirsi come certezza “giurata” dell’amore ricambiato ma, talvolta, anche come rafforzamento illusivo e narcisistico dell’io.

Eppure, la meccanica quantistica sembrerebbe dare ragione a Dante Alighieri. Nel 1964 il fisico irlandese John Stewart Bell, uno dei maggiori esperti in quella specialità, e altri hanno lavorato sull’entanglement quantistico o correlazione quantistica, per dimostrare il teorema in base al quale se nel passato due particelle subatomiche hanno avuto una qualche relazionalità o contatto tra di loro viene mantenuto un legame tale che il comportamento di una delle due può condizionare il comportamento dell’altra, anche se la distanza che li separa è ampia. Se questo avviene per due particelle subatomiche ancor più è pensabile che possa avvenire per esseri costituiti da miliardi di miliardi di tali particelle. In chiave quantistica, Bell dimostra il teorema postulato da Dante: amor che nullo amato amar perdona.

O forse Dante Alighieri, sommo sacerdote dell’amore nelle variegate declinazioni, ha voluto idealizzare la felicità interiore dell’innamorato nella auspicabile e immaginifica proiezione della corrispondenza.

Certo è che il gioco delle apparenze e della realtà può essere attivo anche nell’amore e influenzare i nostri sentimenti, la nostra capacità di amare, la percezione degli affetti, nostri e di quelli che riteniamo propri del partner.

Il rapporto tra due persone è sempre una specularità relazionale la cui tenacia prende vigore man mano che si spoglia da ciò che è solo illusoriamente vero e al contrario svanisce man mano che quanto appariva come veridico vira verso ciò che non lo è, in una evoluzione la cui continuità non è sempre facilmente apprezzabile.

In tale prospettiva, senza timore di far storcere il naso ad alcuno, l’amore di coppia è anche commistione di apparenza e realtà e, in tal senso, le diverse relazioni di coppia, intese genericamente come corrispondenze tra due persone, sono sfide, come tentativo di conquistare qualcosa, come capacità di discernimento tra ciò che è amore e ciò che non lo è, ma anche tra ciò che è amore, sessualità ed erotismo o una loro mescolanza di elementi in rappresentatività variabile.

La propria voglia di amare con passione un’altra persona non si identifica ineludibilmente con la capacità di amare e di essere amato anche nelle proiezioni future. “L’amerò per sempre”, “sarà l’unico mio amore”, sono formulazioni erronee, anche se scaturite istintivamente in buona fede, e ingannevoli se non entrano in una valutazione che, includendo il proprio io, la persona che si ritiene di amare e il contessuto ambientale, proceda alla ricerca di ciò che assume sembianze veridiche.

Il legame sentimentale, avente valenza di amore tra due persone, lo inseguiamo ma non è facile sino al punto estremo in cui è possibile attraversare un’esistenza senza aver mai conosciuto l’amore, come relazione sentimentale appagante nella vita reale, oppure apprezzandone solamente momenti puntiformi che in assenza di continuità potrebbero non formare mai il sentimento amore e dargli completo compimento; in tal caso, potrebbe non esserne estraneo il disallineamento, ideativo e affettivo, che può indurre risposte intrise di incomunicabilità e solitudine.

L’esposizione di questi concetti può portare a pensare che l’amore di coppia sia qualcosa di difficile da realizzare perché condizionato da vincoli che ne limitano la genesi creando ostacoli alla libera espressività dell’animo di due persone.

Fortunatamente, i cammini non sono sempre tali e interviene una genesi embricata in cui, da un lato, la logica porta a una valutazione improntata dalla razionalità che potrebbe ostacolare la genesi dell’amore, dall’altro lato, i sentimenti e la componente illusiva, soprattutto nella prima fase dell’innamoramento, esercitano un ruolo catalizzatore, propiziando quell’amore incondizionato che nel suo manifestarsi è magnificato da percezioni positivamente smisurate che includono e assimilano apparenza e realtà, accrescendo la consapevolezza del valore dell’innamoramento e della persona che si ritiene di amare. In tali circostanze, l’influsso di apparenze fittizie potrebbe assumere un ruolo positivo ed essere condizionante per rafforzare l’intesa e l’amore sul nascere tra due persone. Attenzione però, cadute le apparenze e con una carente partecipazione della verità nel corpo affettivo nella relazione, potrebbe dissolversi anche l’amore.

Pensando all’amore possiamo avere l’illusione di poterlo oggettivizzare descrivendolo, ma quello che facciamo è solo la valutazione di un’istantanea che ne coglie una frazione infinitesimale di secondo, solo quel momento o ciò che è percepito che sia avvenuto sino a quel momento. La sua oggettivizzazione deve passare dalla valutazione del flusso dei mutamenti nel suo divenire, in cui concorre una mescidanza di ingannevoli apparenze e di veridiche realtà, per escludere ciò che è ingannevole e confermare ciò che ha le sembianze di una verità di fatto, ma anche in tal caso la verità può essere relativa. Se così non fosse, in assenza di una percezione valutativa dinamica, tutti gli amori sarebbero eterni.

È possibile che questo accada? Certo che è possibile, anche se è possibile pensare che, quando si è innamorati, non si bada a tutte queste arzigogolate considerazioni, il pensiero è focalizzato sui propri sentimenti e sulla persona, si ama e basta. Ma, anche il “si ama e basta” assume una consistenza affettiva temporalmente puntiforme e una valenza relativa, perché limitata nel tempo e nello spazio. Ovviamente, non si vuole negare l’amore duraturo ma semmai affermarne la sua essenza come l’insieme dei momenti affettivi puntiformi, senza che questo debba essere accettato come idea della frammentazione dell’amore ma semmai come vivacità delle sue dinamiche affettive.

Salvatore Campo


[1] Luigi Pirandello. L’Umorismo. R. Carabba Editore, Lanciano, 1908.

[2] Eugenio Montale. Satura. 1962-70. Lirica “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”. Mondadori Milano, 1971.

[3] Dante Alighieri. Divina Commedia. Verso 103 del canto V dell’Inferno.

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