La cintura dell’orrore
“Non me ne frega un cavolo!”Si rigirò sul fianco destro per la quarta volta .
Si preparava un’altra nottata di inferno, si ripeteva con ritmo incalzante “Non me ne frega un cavolo!” Non aveva detto una parola di quello che aveva visto la mattina precedente. Meglio di chi aveva riconosciuto. Aveva riconosciuto la cintura “El Charro”del motociclista fermo davanti il portone di casa sua. “Ma lo devo dire? Chissà quanti hanno quella cintura ” Si girò la quinta volta sul fianco sinistro. ” E’ lui sicuro. No, perché deve essere lui? ” Nello stesso momento che negava la possibilità che fosse lui ,la corporatura la gamba che reggeva il peso del motore ,la mano poggiata sul ginocchio con un gesto che le era familiare , le toglieva definitivamente ogni dubbio.Era lui. Lui non aveva sparato. Aveva sparato l’altro. Tutti e due avevano il casco integrale, la targa del motore era stata coperta da uno straccio sporco. L’altro era sceso dalla sella del motore. Il motore con lui a cavalcioni si era fermato alla pompa di benzina all’angolo di fronte casa sua. L’altro pacato e sicuro era sceso per risalire subito dopo. Lei aveva sentito solo il rombo del motore che ripartiva e aveva visto svolazzare quella pezza sporca alla fine del cerchione. Non aveva sentito gli spari, ma alla sua sinistra un uomo era disteso a terra e un piccolo torrentello di sangue si faceva largo sul marciapiede. Non le era salito un grido, non aveva mosso un muscolo.Guardava il fioraio che attraversava di corsa verso l’uomo disteso sul marciapiede, gridando ” Ci pigliò un colpo”.
Al telegiornale dell’una diedero la notizia ” Agguato a Palermo. Due killer uccidono un dirigente della Regione”. Lei alla polizia aveva detto le stesse cose che aveva detto il fioraio e il portinaio dello stabile di via Di Giovanni : non avevano sentito gli spari, non si erano accorti di nulla . Il benzinaio aveva intravisto la moto di grossa cilindrata che si era fermata per pochi minuti , lei aveva detto che quei due indossavano i caschi integrali, della pezza sporca che sventolò alla partenza del motore. Non aveva detto della cintura , solo dei giubbotti neri e che dai movimenti sembravano dei ragazzi della sua età. Non poteva crederci, non voleva crederci. Quando chiudeva la saracinesca del negozio al Borgo, quel ragazzo stava lì a guardare insieme a i due fratelli Giliberto. Lei non aveva bisogno di chiedere , nessuno le aveva detto niente, si vedeva che erano tre malacarne. Malacarne e tasci. Ma pure assassini e killer ? Solo perché aveva visto la cintura di uno di loro? “Non me ne frega un cavolo!” E invece non poteva più dormire. Doveva dirlo agli sbirri della cintura consumando a quello e consumarsi pure lei, oppure dimenticare e stare muta.Si alzò e in punta di piedi aprì la porta della camera da letto piano, si avvicinò al letto e sottovoce disse: “Papà che faccio? A uno di quelli lo conosco” “Allora dillo ” disse suo padre che si alzò silenziosamente e le fece cenno di seguirla. In cucina si sedette e con lo sguardo la invitò a sedersi, lui parlava anche così. Guardò l’orologio alla parete sopra le mattonelle bianche . Erano le quattro meno un quarto. “Stammi a sentire: non sei tu che devi scoprire se quello con la cinta era sul motore . Non sei tu che devi decidere se ha sparato o se aspettava l’altro. Tu puoi decidere di fare finta di non aver visto
quella cinta, di non avere un dubbio. Ma se lo ignori oggi sarà come un mattone, il primo che metti. E domani potrà capitarti di metterne un altro, poi un altro ancora . Finirai davanti a un muro a dormire pur essendo sveglia, e a rimanere sveglia , se ti rimane coscienza, quando meriti di dormire” . Lei capì dallo sguardo del padre che non le avrebbe detto più nulla della cintura.
Maria Grazia Lala