Questo non è ballare!
Quando sei dietro il sipario in attesa che tutto cominci, il nervosismo cresce sempre più e si trasforma in ansia, ma è un’ansia buona quella che senti nelle tue vene, una di quelle che speri di sentire sempre, per il resto della tua vita. Almeno fino a quando le gambe ti reggeranno e la voglia di mangiare come tutti gli altri, non si farà sentire troppo.
Poi i riflettori si accendono e in un baleno ci si trasforma in qualcosa di diverso, diventiamo Giselle, Coppelia, Odette. La gente guarda te ma tu gli stai dando loro, quei personaggi che tanto amano, nulla di più, nulla di meno.
Tu balli per più di un’ora senza nemmeno sentire la fatica che arriva, come piombo fuso dentro i tuoi muscoli, solo alla fine, quando le sorti si sono svelate. Dopo l’ultimo ritorno in scena per un altro saluto, l’ennesimo, ci si sente svuotate, libere, senza pensieri e pure i dolori, che presto arriveranno, ci sembrano una prospettiva accettabile, purché si rimanga da sole.
Nel camerino i volti noti si mescolano a quelli sconosciuti, gli ammiratori che si affollano nei miei dieci metri quadrati di riposo, si sovrappongono senza lasciare traccia di sé, se non un flebile ricordo del loro teatrale sorriso. E poi ci sono i fiori, tanti fiori, troppi. L’aria diventa irrespirabile per tanta passione e ammirazione. Toccherà poi farne una selezione per profumi e per colore. Mi terrò i più delicati di entrambi. Ma di tutta la baraonda di complimenti e lusinghe, prodotto del successo di un corpo in movimento, mi rimane solo un ronzio nelle orecchie e una solitudine dolce di cui però farei volentieri a meno se solo ci fosse qualcuno disposto ad amarmi davvero, anche dopo aver tolto il tutù.
Ma un giorno come quelli, dove tutto sembra possibile, dove senti lo sfrigolare lieve dell’amore che si avvicina, un giorno come quelli alla fine arriva e così è stato anche per me.
Non appena è entrato nel camerino ho visto nei suoi occhi il riflesso del mio viso, solo quello e nessuno dei personaggi che ho impersonato. Mi ha guardata e mi ha accolto per quello che ero in realtà. Era venuto per me e non per Giselle. Non aveva fiori tra le mani e le parole che ha pronunciato erano quelle giuste da dire.
Dal camerino all’altare è stata un volo lieve e divertito. Lui vedeva solo me ed io vedevo solo lui. E così ci piaceva essere, nonostante gli amici intorno sentivano di averci perso.
In meno di due tournée una casa fu abitata, un albero piantato e una poesia scritta. Costruimmo in fretta il nostro futuro con il suo lascito di figli, auspicata e benedetta conseguenza. Il tempo di crescerli per affidarli al mondo e la danza tornò ad essere il mio lavoro. I camerini tornarono a riempirsi ma io, adesso, sapevo dove tornare. La mia casa era stracolma di memoria e di affetti.
Ma questo forse, solo per me.
Dentro il petto di quell’uomo che mi aveva amato in modo così giusto cresceva, invece, un sentimento diverso, un dolore assurdo e immotivato, un’afflizione profonda e folle. Quello stesso uomo che aveva pianto per me, riso con me, sognato per me, coltivava in segreto il rancore e la rabbia.
Tutto cominciò dai fiori.
La distruzione si abbattè sui petali dai colori tenui in modo repentino, senza preavviso. Furibondo roteare di vasi e doloroso schiantarsi di boccioli sulle pareti bianche di quella casa che ci aveva accolto benevola. Poi fu la volta delle scarpette da ballo, volate via dalla finestra sospinte da una furia agre, rumorosa, dannosa.
Dagli oggetti al viso il passo fu breve.
Sugli zigomi alti della mia faccia scarna si lessero bene le quattro dita della sua mano rabbiosa. Mi dicevo che la gelosia era pur sempre amore, sebbene camuffato sotto le spoglie di un cieco colpire. Ma questa idea della sopportazione di un marito picchiatore era di mia madre, del suo tempo succube e non del mio.
Il mio non è il tempo della sopportazione e nemmeno del perdono perché non c’è perdono possibile per un uomo come il mio. Nessuna giustificazione ho trovato per il suo agire distruttivo tra i residui di quell’amore che mi aveva legato a lui, nessuna.
Ho scelto allora di nuovo la strada della solitudine perché l’unica a garantirmi ora la salvezza.
E adesso che sono qui, in questa casa segreta, dall’indirizzo indicibile, accanto ai miei figli sottratti allo spettacolo dell’umiliazione. Adesso che sono qui, scortata come un magistrato desideroso di sconfiggere la malavita più pericolosa, mi sento libera, protetta quel tanto che basta per cominciare a ricostruirmi dentro. I lividi sulla mia pelle bianca sono già scomparsi, ma quella tumefazione che mi porto dentro, quella che nessuno può vedere ad occhio nudo, mi auguro vada via presto anche lei.
Adesso e solo adesso, dopo due anni di maltrattamenti e di silenzio colpevole di una me impaurita e stupida, ho trovato la forza per una coraggiosa denuncia.
Anche se piango la notte per la vita che non c’è più, respiro un’aria diversa, leggermente più fresca, rigenerante. Assaporo adesso un’aria più simile a quella di un tempo, quando erano gli applausi del mio pubblico a ventilare i miei giovani polmoni.
E per l’amore, quello vero, spero tanto ci sia ancora in me lo spazio e il tempo.
Mauro Li Vigni