Tra amiche

Hannah Arendt e Mary McCarty

Friedrich Nietzsche, in Al di là del bene e del male, afferma che affinché un legame non si
spezzi bisogna prima averlo morso.
Indicazione che mostra come la capacità di resistenza di un rapporto non sia legata solamente a un andamento senza scosse ma anche alle risorse del conflitto, che attraverso un autentico confronto diviene prova dell’intensità di una relazione.
L’aforisma nietzschiano ben si adatta al racconto dell’amicizia tra Hannah Arendt e Mary
McCarty sia per le circostanze del loro primo incontro sia per la natura mordace e originale posseduta da entrambe.
Arendt e McCarthy si conoscono per la prima volta durante una festa a New York, nel 1945, e subito si scontrano per un malinteso.
Hannah è “affascinante, piena di seduzione, femminile […], gli occhi così splendenti e sfavillanti, pieni di stelle quando era felice o eccitata, ma anche profondi, scuri, remoti, pozzi di interiorità”.
Oltre a essersi rivelata in seguito una delle più potenti pensatrici del Novecento, Hannah Arendt ha una forte capacità di accattivare chi incontra.
Nel 1949 le due donne si ritrovano per caso sullo stesso marciapiede, in attesa della metropolitana.
Si era appena conclusa una riunione della rivista Politics, a cui avevano partecipato e dove si erano trovate in minoranza, e Arendt propone a McCarthy di farla finita con quello screzio: “la pensiamo allo stesso modo, finiamola con queste sciocchezze”.
Ha inizio così un connubio decisivo per la loro vita privata e per il loro lavoro. Nella loro corrispondenza epistolare partecipano a dispetto della distanza – Mary si trasferisce ben presto in Europa per seguire il nuovo marito – attivamente alla vita reciproca. Nelle lettere si consigliano, proteggono, spronano. Imparano insieme a guardare il mondo da un altro punto di vista. Fanno l’una per l’altra piccoli gesti
significativi: nonostante vivano in città diverse continuano a regalarsi fiori. Un modo per animare, come se fossero fisicamente vicine, lo spazio quotidiano l’una dell’altra.
Amicizia per loro è percorrere un pezzo di strada insieme, un tratto, lungo, durato fino alla morte di Hannah Arendt.
La loro conversazione è stata incessante e le ha rese spettatrici comuni di un mondo in profondo cambiamento, sempre più interessato alla spettacolarizzazione che alla verità dei fatti.
In una lettera a Mary, del giugno 1964, Hannah, con un’intuizione quasi profetica, si dice
convinta che il vizio maggiore delle società egualitarie sia l’invidia, un paragonare costante che svela un’attitudine pericolosa: “Se non partecipi a quest’orribile abitudine, ti accusano immediatamente di arroganza – come se, nel non fare paragoni, tu abbia scelto di stare in cima”,
Hannah Arendt, dopo il caso Eichmann e la pubblicazione nel 1963 del libro La banalità del male, viene duramente accusata. È ritratta come una donna supponente, distaccata, “senza cuore”.
Una bufera di insulti e cattive interpretazioni si scatena contro di lei. Secondo Gershom Scholem è senza Herzentakt, tatto del cuore. Numerosi giornali pubblicano articoli duri e ostili e, in Francia, in una lettera collettiva firmata da vari intellettuali di origine ebraica in “Le Nouvel Observateur”, Arendt viene accusata di essere lei stessa, ebrea tedesca, una nazista.

In questa furiosa controversia Mary McCarthy le resta vicina, solidale, come dimostrano le lettere in cui non solo la tiene informata di ciò che la riguarda in Europa, ma chiede spesso di poter prendere posizione in sua difesa.
È innegabile che il riconoscimento nasce dal confronto e dalla consapevolezza delle differenze. Hannah e Mary, pur avendo condiviso da bambine l’esperienza di perdita dei genitori ( Hannah perde il padre assai presto e Mary resta orfana all’età di sei anni), si erano formate in contesti culturali diversi sentimento di non appartenenza, vivono in paesi diversi dal loro luogo di nascita ( Mary in Europa, Hannah in America) e hanno l’attitudine all’analisi attenta.
Hannah Arendt e Mary McCarthy si trovano a lungo a essere insieme, si rassicurano, rappresentano una stabilità a cui si sa di poter fare ritorno. A poco a poco cominciano a somigliarsi anche nel volto indurito e negli occhi scintillanti. Noi, scriveva Audre Lorde rivolgendosi a ogni donna, dobbiamo incoraggiare noi stesse e le altre a tentare azioni eretiche che così tante delle nostre vecchie idee screditano.
Ecco che non può che essere un ricordo di grande tenerezza che Mary restituisce al
funerale di Hannah:
“Aveva mani piccole e belle, caviglie eleganti, piedi slanciati. Aveva una passione per le scarpe […] bastava vederla una volta ritta su una pedana da conferenze per essere colpiti da quei suoi piedi, polpacci e caviglie che sembravano tenere il passo con i suoi pensieri.
[…] Osservarla mentre parlava a un uditorio era come vedere i moti della mente trasferiti nell’azione e nel gesto. Improvvisamente, si arrestava davanti al leggio, aggrottava la fronte, consultava il soffitto, si morsicava il labbro”.
Per Arendt la nascita, non la morte, è la categoria filosofica per eccellenza e mi sembra di poter dire che lo sguardo di Mary su di lei restituisca un riconoscimento che è capace di far nascere, di nuovo, nello spazio segreto di accoglienza che l’amicizia ancora ci può donare.

Di Ivana Margarese

BIBLIOGRAFIA
Arendt H., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di Bernardini P., Milano
1964.
Arendt H., Vita activa. La condizione umana, trad it. di Finzi S., Milano 1964,1991.
Arendt H., Responsabilità e giudizio, trad. it. di Tarizzo D., Torino 2004.
Arendt H., La vita della mente, trad. it. di Zanetti G., Bologna 2009.

Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy. 1949-1975, trad. it. di Pakra-
van Papi A., Palermo 1999.

McCarthy M., Il gruppo, trad. it. di de Cristofaro M., Milano 1964.

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