Di tragica intimità: Marina e Sonečka
La costruzione di un’amicizia.
“Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos”.
Catullo, Poesie
“Sia tu benedetta per l’attimo di beatitudine e di felicità”.
F.M. Dostoevskij, Le notti Bianche
Marina Cvetaeva conosce l’attrice teatrale Sof’ja Evgen’evna Gollidej, detta Sonečka, durante la rappresentazione delle Notti Bianche di F.M. Dostoevskij, nella primavera del 1919, al tempo delle primissime foglioline verdi. Erano gli anni in cui rifulgevano i talenti, spesso molto giovani, del Terzo studio del teatro d’arte di Mosca, fondato da Vachtangov.
L’amicizia tra Marina e Sof’ja nasce come prolungamento di un atto teatrale. Del dramma ha tutto il ritmo: la contraddistingue il movimento, la danza, le parole. Tutto appare scomposto all’inizio, pieno di furore. Tutto brucia quando le due anime si incontrano nel sacro fuoco dell’arte, qui non semplice metafora, ma intensa chiave di lettura di un’ amicizia nascente e che è destinata a perdurare, intesa, nel tempo. Brucia tutto anche a Lacanau Ocean dove, nell’estate del 1937, Cvetaeva infuoca le pagine di uno scritto che rende onore alla intensa storia di amore e amicizia che legò le due donne negli anni più buî della storia moscovita. Il resoconto,si trova testimoniato nel romanzo-memoriale dedicato a Sonecka, Povest’ o Sonečke (Il racconto di Sonečka), scritto a quasi venti anni di distanza dai fatti narrati.
Marina costruiva letteralmente – poieticamente- le persone che entravano nel cerchio dei suoi affetti. Era un processo che oltrepassava la sola immaginazione. «Soltanto quando ripenso a Sonečka capisco tutti i paragoni tra donne e fiori, occhi e stelle, labbra e petali, ecc- da che mondo e mondo. Non – «capisco»: li creo ex-novo».
La poetessa, sublimatrice della realtà, subiva anche il processo opposto; ciò che la circondava plasmava i suoi versi, ne dirigeva i destini. Il byt’, parola russa che significa, essere, modo di vivere, – o più genericamente- quotidiano, fu una componente molto importante nella vita di Cvetaeva. Un byt’ che la soffocava, ora claustrofobico, ora traboccante di immagini. Utilizzando una sorta di correlativo oggettivo, riusciva a costruire con gli oggetti uno spazio affettivo inattaccabile dall’erosione del presente. Così annotava nei taccuini del 1919:
«La sua ultima lettera risale al gennaio 1918 – quasi due anni fa. Vivo con Alja e Irina (Alja ha sei anni, Irina due anni e sette mesi) in Borisoglebskij pereulok, di fronte a due alberi, nella mansarda che era di Sereža. Niente farina, niente pane, sotto la scrivania 12 funt circa di patate, residui del pud “prestato” dai vicini – tutta la nostra scorta! – l’anarchico Charles mi ha sottratto l’orologio antico di Sereža “élève de Bréguet” – sono andata da lui 100 volte – all’inizio prometteva di restituirlo, poi mi ha detto di averlo dato in custodia a qualcuno, poi che a quello a cui l’aveva dato l’avevano rubato, ma che lui è una persona ricca e restituirà i soldi, poi si è fatto insolente e ha cominciato a gridare che lui non risponde delle cose altrui. – Risultato: né orologio né soldi»
Il quotidiano incalza, passato e presente si saldano in una dimensione letteraria avvitata sul bytie (esistenza): in quel tempo, Sonečka ancora viva, Marina pativa la fame, mentre il lutto precoce proiettava da lontano la lunga ombra. Seguono anni di intensa attività letteraria, in cui la vena creativa raggiunge l’apice della produttività: nel 1922 si trasferisce si trasferisce a Berlino, poi Praga con Alja; Efron, il marito, è vivo e risiede nella città che ha accolto benevolmente gli emigrèè, concedendo loro una borsa di studio. Insieme poi raggiungeranno la Cecoslovacchia. Sonja e Marina si amavano, nel senso alto del bene velle catulliano, e di questo movimento poetico erano intrise. Amicizia ed eros si alternavano come onde frenetiche, seguendo il ritmo dell’ assenza e della presenza.
Nel cerchio tutto ebbe inizio e nel cerchio prende commiato, versi scritti per Pasternak erano in realtà diretti a lei, a Sonečka, vero motore primo di ogni ardore poetico, di ogni affetto smisurato, oltre il novero dei grandi amori, oltre il tempo del byt, (essere) oltre lo spazio circolare del bytie (esistenza). Era ormai lontana, era l’ultima eco prima della dipartita, della malattia atroce e del cappio suicida. Un riverbero d’amore che ridona immortalità al passaggio delle ore che rintoccano i passaggi del destino, crudeli eppure necessari.
«Le lacrime erano più grandi
degli occhi umani- e delle stelle
sull’atlantico…
E le stelle dell’ oceano Atlantico brillano sopra il piccolo villaggio di Lacanau- Océan, dove ora scrivo la mia Sonečka, e guardandole stanotte, verso l’una, mi è tornata in mente questa poesia».
Il mare, emblema della solitudine, ritorna spesso nei suoi testi, insistente. Ne Il mio Puškin, e nella tragedia dedicato al mito di Arianna, la poesia è annegamento, dispersione nell’eterno del mare. Solitudine, anima, eterno ciclo. Difficile dire se questo mare sia più leopardianamente un infinito dell’immaginazione, o un disperato appello alla fine, sulla scorta dell’ultimo Mandel’stam. La lontananza di Marina qui, sembra segnare il rintocco nero di un’assenza vibrante. L’abbandono rende l’essere più presente e in questa ferita Sonečka Golliday, giorno di festa, ritorna come un’ombra, come quella dei sogni/soglia, in cui il reale si trasfigura nell’oltre, in una dimensione dell’assoluto, qui dell’arte e della parola. Sonečka muore di cancro al fegato nel 1934, consumando il suo corpo tra dolori inguaribili. Quegli occhi che parevano piangere musica di Mozart, ora spiccano giganteschi in un corpo ancora più piccolo per la malattia, spalancati sul mistero della vita che impietosamente scivola via. È l’attimo in cui la tragica intimità della loro amicizia prende la strada della trasfigurazione. Il cerchio delle notti bianche si chiude: sia tu benedetta per l’attimo di beatitudine e felicità.
Antonina Nocera
Bibliografia
Marina Cvetaeva, Sonečka, Torino, 2019.
Marina Cvetaeva, Taccuini 1919-1921, Roma, 2014.
Marina Cvetaeva, Arianna, Milano, 2021.
Marina Cvetaeva, Lettera all’amazzone, Roma , 2016.
F.M. Dostoevskij, Netočka Nezvanova, Milano, 2003.
F.M. Dostoevskij, Le notti bianche in Racconti, Milano, 1997.Renè Girard, Dostoevskij. Dal doppio all’unità, Milano, 1987.J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione, Prevedibilità e imprevedibilità, Milano, 1993.Antonina Nocera, Angeli sigillati. I bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij, Milano, 2010.Solomon Volkov, San Pietroburgo, Da Puskin a Brodskij, storia di una capitale culturale, Milano,1995.