Recensione di Erotanasie, a cura di Franca Alaimo
Gli innamorati di oggi, per esprimere sentimenti d’amore, ricorrono a messaggini ed emoticon. Ma, prima dell’avvento dei social, era un’abitudine assai diffusa prendere carta e penna e scrivere lettere. Inutile dire che quelle degli artisti hanno una marcia in più e che alcuni di loro (un nome per tutti: D’Annunzio) hanno messo in campo una grande profusione di strumenti retorici proprio nell’ottica di una permanenza nell’ambito della storia letteraria. Impossibile elencare tutti gli innamorati illustri che in ogni tempo si sono scambiati parole di gioia, dolore, nostalgia, ardore, desiderio.
Recentemente la casa editrice il Saggiatore ha riunito insieme in un grosso volume (Lettere d’amore) i carteggi di alcuni scrittori del Novecento corredati di una bella prefazione di Massimo Onofri, il quale osserva, in sintesi, che nelle lettere amorose si ripete, nonostante le innumerevoli variazioni, un motivo di fondo, che è l’ossessione dell’io ti penso. Infatti, come scriveva Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, «la lettera d’amore è insieme vuota (codificata) ed espressiva (piena della voglia di esprimere il desiderio)», e la collocazione della parola è, comunque, di «qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), che invece non parla», mettendosi poi nella condizione dell’attesa -una sorta di piccola morte silenziosa- delle parole dell’altro.
Sulla scia di questo genere letterario ormai illustre si colloca il recente epistolario poetico Erotanasie di (meglio si direbbe tra) Giannino Balbis ed Emanuela Mannino, che già nella scelta del titolo spinge il lettore a fare almeno tre considerazioni. La prima è che l’uso di due termini attinti alla lingua greca eros e tanatos, nel rimandare alle radici di tale connubio, assai prima della codificazione sistematica della psicoanalisi freudiana, avverte il lettore dell’imprescindibilità dell’elemento narrativo mitologico.
La seconda è che, adoperando il plurale ‘erotanasie’, i due poeti intendono mescolare nel discorso amoroso i tanti ‘noi amanti’ e le loro tante storie, accentuando la letterarietà dell’operazione e la sua idealizzazione, che, perdipiù, sembra essere per antonomasia la chiave interpretativa dell’amore a distanza di ogni epistolario, in quanto mima, ma abbellendolo, quello che secondo la psicoanalista e scrittrice Lou Von Salomé è: «Un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza», se è vero che in un rapporto amoroso «l’uno sfiora l’altro lasciandolo poi a sè stesso», e se è vero che chi scrive una lettera d’amore è innanzitutto solo con i suoi sentimenti e scrive a sé stesso.
Ma, come prima si è detto, l’epistolario di Giannino Balbis e di Emanuela Mannino s’infittisce di centinaia di versi, cosa che lo differenzia dal corrispettivo genere in prosa (in copertina si legge pure la dicitura “poema a due voci”) e, perciò, esige un minimo di inquadramento nella storia della letteratura, il che ci costringe a tornare molto indietro nel tempo fino al poeta latino Properzio, vissuto tra il 47 e il 16 a.C. (qualcuno sostiene 14), che, come scrive Roberto Mussapi, «rivoluziona la poesia lirica fondendo il genere con quello epistolare (…) e trasforma il senso stesso dell’epistola», che «perde il suo puro senso originario di messaggio, comunicazione (e) si arricchisce di senso divenendo anche soffio d’amore».
Ma certamente il riferimento più fecondo, a cominciare dal titolo, è quello a Giacomo Leopardi che intitolò Amore e morte il secondo dei cinque testi che compongono il cosiddetto “ciclo di Aspasia” ispirati dall’amore per Fanny Targioni Tozzetti alla quale, in una lettera dell’agosto 1833, aveva già scritto: «l’amore e la morte sono le sole cose belle degne di essere desiderate”, parole che dimostrano, fra l’altro, come l’esperienza biografica venga elaborata dal poeta recanatese in una teoria astratta e universale. È casomai la poetica coerenza immaginativa del Leopardi a trasformare, alla fine del testo, la morte in una figura femminile sul cui seno egli finalmente piegherà il suo volto addormentato.
Un altro riferimento importante è il poeta novecentesco Eugenio Montale, a cui rimanda quel visiting angel che Balbis nomina nella lettera nona. Montale usò questa espressione nel 1961, raffigurando in queste vesti Clizia (a sua volta evocando un mito ovidiano) ossia una figura di donna portatrice di salvezza, secondo un’idea che nasce nel Duecento con il Dolce Stil novo e, che, passando attraverso “l’angelica sembianza” nel Il pensiero dominante del già citato Leopardi, giunge fino a Montale, e da lui al Fellini de “La dolce vita”, che si conclude emblematicamente con l’apparizione del volto di una Valeria Ciangottini adolescenziale, sogno di un ritorno alla purezza ormai smarrita dall’umanità, ad una redimibilità possibile solo grazie all’innocenza di un concetto sacro della femminilità, assai prossima, tutto sommato, a quella del culto mariano cattolico.
Questa lunga premessa vuole, dunque, sottolineare l’iperletterarietà di questo “poema a due voci”, che fluisce verso le battute finali attraverso una rete fittissima di citazioni d’ogni tipo: geografiche, storiche, fantastiche o reali nel tentativo di una riscrittura contemporanea di un tema che accomuna e cuce insieme come un fil rouge gli autori di ogni tempo e di ogni scuola poetica, convocati come testimoni e avalli autorevoli di un ragionamento d’amore che vuole essere, innanzitutto, una dichiarazione universale di poetica, sviluppata secondo tre assunti fondamentali.
Il primo è: l’arte nasce dal dolore: “e finalmente agli uomini fu chiaro/ quanto al dolore debbano/ i doni sovrumani delle Muse,/ che solo il sacrificio rende umani”, pag. 37. Lettera 11). Si tratta di un binomio (arte e dolore) anche questo indissolubile in poesia, specialmente dall’Ottocento in poi, con il prevalere dell’individualismo romantico e di una sensibilità più avvertita: Leopardi, Montale, Pascoli, Rilke, giusto per fare qualche esempio, ne fanno un tema privilegiato; però anche il mondo classico con i suoi miti non ne è esente: da quello di Procte, trasformatasi in usignolo per cantare eternamente l’uccisione del figlio Iti, a quello di Orfeo (il simbolo per eccellenza della poesia) che lamenta sulla lira la scomparsa di Euridice. Perfino l’ironia con cui Gesualdo Bufalino (in Il ritorno di Euridice, 1986) interpreta il mito, conferma la tesi di questa inscindibilità: lo scrittore sposa, infatti, la tesi di Euridice, la quale sostiene che Orfeo l’ha fatto apposta a voltarsi, perché altrimenti non avrebbe potuto celebrare la sua perdita e innamorare gli uomini con il suo dolore.
Come dire che ogni artista sa come il dolore costituisca uno strumento di fertile autoindagine cognitiva e di elaborazione trasformativa da uno stato di disequilibrio ad uno di rinnovato equilibrio. Nel dicembre del 1926 Rilke, forse il più grande officiante del dolore, in qualche modo più dello stesso Leopardi, annota su un quaderno una poesia dalla quale citiamo questi versi: “Vieni tu, tu ultimo ravvisato./ Tu, insanabile dolore, intramato/ ora nel corpo. Un tempo nello spirito, / ecco in te, sono io ora calcinato”.
Il secondo assunto: l’arte è uno strumento di eternizzazione, viene espresso in questo passaggio: “Siamo nessuno e molti. Siamo questo/ presente-assente amore./ Siamo tutti quelli che vogliamo.// Tutti i voli del cuore e le cadute./ Viviamo dove vivono per sempre/ le vite non vissute.” (pag. 45, Lettera 14). L’eternizzazione donata dall’arte è un tòpos che ricorre fin dalla classicità: il poeta latino Orazio scrive: “Exegi monumentum aere perennius”, Dante, rivolgendosi al maestro Brunetto Latini, afferma di lui: “la cara e buona immagine paterna/ di voi quando nel mondo ad ora ad ora/ m’insegnavate come l’uom s’etterna” (Inferno, XV, vv 83-85). L’intendimento di entrambi riguarda, dunque, la Bellezza etico-estetica, se è vero, come scrive il filosofo indiano Amit Ray, che «la bellezza è il momento in cui il tempo svanisce. La bellezza è lo spazio da cui nasce l’eternità».
E, infine, l’arte come dimensione di salvezza: “Non oso credere al Castigo, / ma alla Grazia/ di un Cosmo aperto/ all’Infinito ri-esistere” (pag.17, Lettera 4), scrive lei, inserendo l’amore di coppia in un progetto di misericordia universale, secondo uno sguardo religioso, sia pure in senso lato, senza per questo minimizzare la funzione catartica dell’arte in sé che salva l’uomo dalla disarmonia e dalla disperazione attraverso il canto, ossia la bella architettura musicale delle parole.
In buona sostanza questo epistolario può essere considerato un excursus all’interno di una vastissima produzione letteraria dalla classicità alla letteratura novecentesca: i due scriventi, che non hanno un’identità precisa, si appellano l’un l’altra con “amato mio”, “amatissima mia”, “amore mio”: lui la chiama a volte Euridice, a volte Emily, a volte Giulietta o ‘giovane divina’; lei va avanti e indietro nel tempo dal medioevo di Isabella di Morra all’Ottocento romantico di Friedrich Hölderlin, lui erra da città in città, lungo le sponde della Senna o del Neckar. E si firmano Abbagli insonni (lui) e Costanza (lei) con una motivazione probabilmente simbolica; il primo accennando ad una condizione di insonnia amorosa durante la quale l’innamorato è spesso preda di incredibili immaginazioni; la seconda ad una virtù del cuore, che è la fedele perseveranza, se non, più probabilmente, a un personaggio storico: Costanza d’Altavilla, giusto per evidenziare con orgoglio la propria appartenenza alla terra siciliana e alla regalità conferitale dalla poesia, un po’ come fa la Dickinson che ai autoincorona di fronte al mondo.
Ambiguo lo spazio da cui i due amanti si parlano, ora celeste, ora infero, ora lontanissimo, ora così prossimo che basterebbe solo un nulla a scavalcarlo e a rendere presente l’assenza. Tra i due il più carnale è l’uomo, la più vaga e reticente la donna. È lui che prega, che supplica, che arde, che vuole, che rimpiange i congiungimenti del corpo, mentre lei tenta di arginarne l’impeto in nome di una memoria in cui rimanere, ancora innamorati, sì, ma pronti a trasformarla in vaghezza onirica. Non per nulla torna e ritorna nelle sue lettere il monito: “Aspettami/ senza aspettare”, in cui l’attesa è una postura mentale, memoriale, non un invito alla realtà di un incontro.
Il poema si colloca facilmente all’interno di una tradizione aulica per la preziosità del lessico, l’abbondanza delle figure retoriche di senso e di suono, per il tono squisitamente lirico, per l’alternanza di visioni e richiami colti, per l’inseguimento di una grazia laboriosa e aristocratica.
L’impianto metrico resta classico, tra endecasillabi, settenari e spezzature di versi tradizionali che sottolinenano effetti di drammaticità o di polverizzazione della sonorità. Quest’ultima è affidata alla presenza, sia pure non sistematica, delle rime (perfette ed imperfette), e soprattutto all’abbondanza di allitterazioni e reiterazioni, riprese, di echi e passaggi di alta drammaticità, talvolta patetica, che richiamano certi libretti d’opera così in voga nell’Ottocento.
Un tuffo indietro nel tempo, che vuole essere un invito al recupero della grande tradizione lirica italiana ed europea, piuttosto trascurata dall’ultima generazione di poeti, ma prima ancora dalla scuola.
Franca Alaimo