Recensione di “Erotanasie” a cura di Ornella Mallo

Il poema a due voci di Giannino Balbis ed Emanuela Mannino, ha un titolo altamente suggestivo: “Erotanasie”. Deriva dalla fusione di due sostantivi di origine greca: Eros, che significa amore, e Thanatos, che significa morte. Nella prefazione i due autori fanno presente che l’allusione al termine “Eutanasia” è voluta, anche se vaga. Vedremo poi perché. Intanto è immediato il richiamo a Freud e alla teoria da lui esposta nel saggio “Al di là del principio di piacere”, incentrato sui temi dell’Eros e del Thanatos, ossia sulla “pulsione di vita” e sulla “pulsione di morte” che, pur opposte e contrastanti tra loro, presiedono alle dinamiche comportamentali di tutti gli individui. In questo testo il padre della psicoanalisi moderna si ispira a Empedocle e al conflitto psicologico in termini dualistici, preconizzato dal filosofo greco, tra la forza aggregante della Philia, ossia dell’Amore, e la forza disgregante del Neikos, ossia dell’Odio, che produce distruzione e morte.

Per cui, se da una parte Eros ci spinge verso l’Altro, e ci porta a creare con lui un’unità simbiotica, dall’altra  Thanatos suscita in noi atteggiamenti respingenti e demolitivi, per cui tendiamo ad allontanarci  riducendo in macerie la relazione. Non solo. Per Freud Thanatos, nel suo significato primigenio di morte, esprime anche il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. 

Eros e Thanatos sono la scaturigine degli “aporemi del cuore” di cui parlano Abbagli Insonni e Costanza, i due protagonisti dell’opera.

La morte aleggia per tutto il poema: viene individuata come evento tranciante della relazione amorosa che i due personaggi hanno avuto in vita, e da cui è nato un figlio, dal nome emblematico di “Astrolabio”. Emblematico non solo per il suo significato di carpitore di stelle, [da astron, stella, e lab, radice del verbo greco lambano, che significa acchiappare, prendere], indicativo della funzione tutelare della relazione da lui assolta mentre i protagonisti erano in vita: “Astrolabio / piange lontano /[…] ed io / inerme madre / l’abbraccio forte”, scrive Costanza; ma anche per essere il nome proprio del figlio di Abelardo ed Eloisa, passati alla storia per la forza dirompente della loro passione dagli esiti infausti. Balbis e Mannino, nel loro poema, non solo li citano espressamente, ma continuamente fanno riferimento ad altre figure storiche, che si sono distinte per i loro amori tanto intensi quanto infelici: Isabella di Morra e Diego Sandoval, Susette Gontard e Hoderlin, Giulietta e Romeo, Orfeo ed Euridice, la Baronessa di Carini ed Emily Dickinson, giusto per fare qualche esempio. Tutti amanti che, per ragioni molteplici e diverse, non hanno potuto realizzare sulla terra il loro ideale di amore. La domanda che sembrerebbero allora rivolgere gli autori del poema a sé stessi e al lettore è: se in vita è difficilissimo, se non addirittura impossibile, realizzare un progetto amoroso, dopo la morte sarà possibile?

Il quesito su cui si impernia tutta l’opera è preannunciato nella prefazione scritta dai due poeti. In essa spiegano che i protagonisti dopo la morte raggiungono l’Eterno, e da lì si scrivono in versi. Perché il legame tra i due, non è solo dato dall’Eros che intensamente persiste, seppure come ideale, e dal figlio Astrolabio, “monco di albero padre”; il legame risiede nella Poesia, valore indiscusso grazie al quale il loro amore sopravvive alla morte: “io sposo a te di versi / […] tu sposa mia di rime”, asserisce Abbagli Insonni. Se tutto viene meno, restano in piedi soltanto i versi, che non saranno erosi dal tempo. Sono l’emblema dell’Eterno, limbo del “tutto-nulla” in cui “cerca riposo / – fuggendo immaginando – /” l’infelicità dei due protagonisti. 

Abbagli Insonni, nell’incipit del poema, parla di una “nebbia di tempo” che li “avvolge e non dirada.”  Scriveva Joe Bousquet: “La morte è la solitudine delle persone amate, / questa nebbia intorno a loro che nessuna / tenera parola può attraversare. / La morte è il dolore e la disperazione / nelle stesse parole che furono l’ebbrezza / della felicità. La morte sono i pianti che / sgorgano ascoltando una / parola che voleva dire amore.” Leggendo più approfonditamente l’opera, emerge come la morte fisica non abbia che conclamato quella morte spirituale che era stata inferta al rapporto dai due amanti mentre erano in vita. I versi infatti sono pervasi dallo struggimento che i protagonisti provano per non essere stati capaci di difendere il loro amore, e in questo si sentono vicini a tutti gli amanti della storia, accomunati dalla stessa sorte. Scrive Costanza ad Abbagli Insonni: “quanto dolore salmastro / tra gli amanti ignoti / quanta malinconia sparsa / nell’Eterno dei perché recisi dal silenzio.” E in altri versi afferma: “Sì, amato mio, / forse avremmo dovuto lottare / contro i cinici cieli aggrottati / e le comari nuvole accigliate / contro ai venti negri di invidia, / e le lingue nemiche / persino le malelingue amiche.” Abbagli Insonni le fa eco: “È questa allora / la pena degli amanti maledetti, / colpevoli non già d’amarsi a scandalo / dei falsi moralisti, / ma di scoprirsi inetti alla difesa / del proprio santo amore.”

È il rimprovero che più frequentemente muovono a sé stessi gli amanti quando elaborano il lutto per la fine del loro amore: “Il mio amore di te non si ama”, annotava Kafka nei suoi diari, citazione quanto mai espressiva di quel Thanatos latente che uccide l’Eros.

L’Eros pervade il poema nella stessa misura in cui lo pervade il Thanatos, e si esplica in due sentimenti fortemente presenti nelle epistole che si scambiano i due protagonisti: il sentimento dell’Assenza, da cui scaturisce il desiderio di rivedersi per insufflare vita in sé stessi e nel loro amore; e quello dell’Attesa, provato nella sua urgenza carnale da Abbagli Insonni, che inizialmente alimenta la speranza di possedere nuovamente la sua amata, mentre Costanza appare subito mistica nel suo dire, e si mostra rassegnata alla definitività del loro addio.

A proposito del tormento inflitto dall’Assenza, scrive Abbagli Insonni: “È questa / la nostra dannazione? / Questa nebbia / che della tua presenza… (sei qui, sento / di te ogni palpito, vedo il tuo corpo / fremere, e le tue labbra aprirsi, / vedo i tuoi occhi ridere, / respiro il tuo profumo) / che della tua presenza / fa disperata assenza?” Sull’Assenza, detta “Erwartung”, in “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes scriveva: “Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno”. Quello di Abbagli Insonni è l’Hímeros greco, ossia il desiderio pressante della carne; quello di Costanza è il Pothos, ossia il bisogno spirituale dell’amato lontano, misto al senso di dolorosa rassegnazione all’impossibilità di un ricongiungimento. Ragion per cui lei scrive: “Aspettami, senza aspettare – / come s’aspetta il / suggello dell’onda / sull’orme del dipinto desìo / radice di china di mare, dall’Eterno mondo / dei ritorni di Chi / s’è appartenuto / oltre i navigli delle ombre.” E aggiunge: “Va’, amatissimo mio, va’ / lasciami qui / a riprendermi le verità / taciute al mio seno: / donna senz’uomo donna senz’Eterno / donna / in attimi d’Inferno / donna senza – / donna diamante / amante di insondabili vuoti / che nel vuoto / riempie già.” Si conferma nella morte il senso di solitudine già provato in vita per il mancato appagamento dei propri bisogni. Ed emerge la risposta al quesito circa la possibilità di una realizzazione dell’amore dopo la morte: venendo meno la fisicità, l’amore non potrà essere vissuto concretamente. I due amanti restano lontani. Scrive Abbagli Insonni: “noi, amata mia, / non fummo […] servi del dio Amore ma servitori al mondo / che volle giudicarci… / Per questo ora ci amiamo / separati dal mare / che non fu mai solcato. / E solamente in sogno / possiamo l’uno all’altra ritornare.”

Gli ultimi versi del poema spiegano il richiamo all’eutanasia, anticipato dai poeti nella prefazione. Scrive Costanza: “Leggero appare l’abbandono / e soave il canto di nuovo amore.” L’accettazione dell’impossibilità di riaversi rende dolce la morte del loro amore fisico. Resta eterno l’amore spirituale, che non è che un anelito mistico, intriso del ricordo idealizzato dell’altro. Ragion per cui vale la pena concludere le nostre riflessioni su “Erotanasie” con i versi di Emily Dickinson, la cui vita è “presa in prestito” dai due amanti come esempio di amore irrealizzato, e che esplicitano il senso essenziale di “Erotanasie”: “Chi è amato non conosce morte, / perché l’amore è immortalità, / o meglio è sostanza divina. / Chi ama non conosce morte, / perché l’amore fa rinascere la vita / nella divinità.”

Da un punto di vista squisitamente formale, il poema risponde a criteri classici, il lessico è molto elegante e ricercato. Le due parti, quella di Abbagli Insonni e quella di Costanza, sono perfettamente integrate. I versi sono di struggente bellezza e intensità nella resa del dolore per il distacco, e della malinconica accettazione dell’invivibilità dell’amore.

Da leggere.

Ornella Mallo 

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