Forugh
Occhi neri e l’incanto fatale del canto
È il suo mese, lo so da quando l’ho incontrata sui fogli di lavoro del filosofo Fabio Gabrielli. Una folgorazione immensa, un amore che mi ha tolto il sonno. Chiedo a Fabio chi sia questa poetessa che mi strega. Pronuncia il suo nome, Forugh Farrokhzād e aggiunge: “Leggila, ti farà impazzire”. Iniziano le mie ricerche, compro alcuni suoi testi, divoro i suoi versi, guardo le sue foto. Occhi neri profondi e labbra carnose, bellissima donna iraniana, intelligente e ribelle, incontenibile, dalla vita inquieta, appassionata, fatale, nel senso più amaro dell’espressione. Muore il 13 febbraio 1967 in un terribile incidente stradale, mentre alla guida della sua jeep, si schianta tra le strette e tortuose stradine alberate del vecchio quartiere di Shemirān, a Tehran. Uno schianto che è volo per la nostra poetessa, perché se ripercorriamo la sua storia personale, la sua vita si è sempre dibattuta tra le catene della repressione, dei doveri, delle costrizioni e la necessità inalienabile e inevitabile di essere libera, perché come dice lei stessa, tutto il suo essere è un canto. Forugh è terza di sette figli. Suo padre è un colonnello severo e attento alla disciplina ma è un uomo colto che incoraggia anche le figlie femmine a leggere e a studiare. E in una grande casa con una grande biblioteca e un grande giardino, trascorre la sua infanzia, Forugh. Inizia giovanissima a comporre versi. È una giovane precoce in tutto. A soli sedici anni sposa contro il volere del padre, un cugino di quindici anni più anziano di lei. A soli diciassette anni diventa madre di un figlio amatissimo ma a cui in maniera disumana dovrà rinunciare. Perché la nostra Forugh viene posta davanti un bivio crudele: essere moglie e madre o essere poetessa. Le convenzioni culturali della società iraniana non le permettono di essere entrambe le cose. Il divorzio giunge prestissimo, appena dopo tre anni di matrimonio. Ma non è il divorzio, il bisturi che l’attraversa da parte a parte, che la dilania e la amputa. Dopo il divorzio, per la legge iraniana e le prescrizioni religiose, lei non è più adeguata a svolgere il ruolo di madre. Forugh perde il diritto a vedere suo figlio per il resto della sua esistenza. La nostra poetessa vive così una oscura fase depressiva cui segue un travagliato ricovero in uno ospedale psichiatrico. Viene etichettata subito come “poetessa del peccato” poiché nella sua prima raccolta poetica dal titolo simbolico Prigioniera mette a nudo senza veli o pudore i suoi più intimi e profondi sentimenti. Forugh non può che lasciare l’Iran per un po’ e compiere un viaggio in Europa, alla ricerca di una boccata di aria pulita, di ossigeno in vena e non veleno. Ha bisogno di ricostruirsi come donna prima di tutto, di arricchire la sua formazione, di ampliare i suoi orizzonti dedicandosi anche all’arte, alla pittura, al cinema. In questo periodo si colloca la sua più grande storia d’amore. Incontra un noto scrittore e regista, Ebrāhim Golestān di cui si innamora follemente. Questo amore è fonte non solo di passione profonda ma di pulsioni e slanci artistici. Forugh inizia a svolgere una intensa attività di sceneggiatrice, regista, montatrice, perfino attrice. Nel 1962 realizzerà un cortometraggio duro e toccante dal titolo La casa è nera sulla vita di un gruppo di lebbrosi rinchiusi in una casa di cura a Tabriz. Chissà quanto anche lei si fosse sentita segretamente lebbrosa perché portatrice sana nel mondo di poesia, perché marchiata a vita sulla pelle, di quel suo amore disperato e inevitabile per i versi. Chissà se l’esperienza di essere stata rinchiusa in una casa di cura per matti, non abbia in qualche modo anche inconsciamente, condotto la poetessa a volgere il suo sguardo pietoso verso gli ultimi della terra. Sappiamo solo che il cortometraggio è così struggente e lucido che ottiene il primo premio al Festival di Oberhausen. Forugh non si ferma di scrivere, infatti pubblica la sua ultima silloge poetica dal titolo Un’altra nascita. Da allora diviene oggetto di studio e discussioni tra gli intellettuali e i critici letterari più importanti. La sua scrittura è notevolmente trasformata, matura, rinata. Forugh si è partorita nuova e integra e la Poesia è stata madre salvifica. La sua appartenenza ai versi e alle parole è assoluta. Non può ammettere se non devozione, impegno, studio profondo, viaggi per arricchire l’anima e lo sguardo eclettico e amorevole sul mondo tutto. Muore a 32 anni. Cosa sarebbe stata la sua vita se non fosse volata altrove e quanti altri versi ci avrebbe donato, non ci è permesso saperlo ma restano quegli occhi neri e profondi, quelle labbra carnose, quei lineamenti fatali che penetrano dentro come le sue poesie d’amore, di morte, di passione, di furore, tormento, di nostalgia per un incanto spezzato, di dolore inspiegabile, perfino con le parole che nessuno potrà risarcire per aver perso così ingiustamente, il suo unico e prezioso figlio.
Restano quei suoi tanti versi davanti ai quali non puoi che per un attimo smettere finanche di respirare; perché Forugh ti toglie il respiro.
“Che pena, siamo felici e quieti,
siamo tristi e silenti,
felici perché innamorati
tristi perché l’amore è maledizione.”
E ancora:
“Dormi nel sorriso del mio domani,
nel profondo dei miei mondi ti inoltri.
Mi infondi il fervore della poesia
poi infiammi tutta la mia poesia.
La febbre del mio amore accendi
ma al fuoco il mio canto condanni.”
La concezione dell’amore è sempre attraversata da un godimento che è preludio di tormento. La bellezza del mondo viene cantata con incanto e stupore ma vi è la consapevolezza profonda che tutto si disfa. L’unica verità assoluta, l’unica certezza che resta è la Voce. È in quei versi di impareggiabile bellezza, la chiave di accesso al mondo immenso di Forugh:
“La voce, solo la voce,
la voce del limpido desiderio dell’acqua di scorrere,
la voce del flusso della luce stellare
sulla superficie femminea della terra,
la voce che concepisce il senso
e spande il pensiero condiviso sull’amore.
La voce, la voce,
è solo la voce che resta.”
Vi è in Forugh la necessità impellente di oltrepassare l’immanenza, di fondersi in maniera panica con tutti gli elementi della natura, d’essere ovunque perché i poeti e solo i poeti sanno e possono esserlo. Divenire acqua fluida, terra feconda, vento carezzevole, luce stellare, spighe di grano. Essere amore declinato in tutte le sue forme: desiderio, canto, spinta erotica, ferita inguaribile, soglia inaccessibile, segreto viscerale, dono di sé, seme generativo, esplosione mistica, creazione artistica. Vi è nella nostra poetessa la consapevolezza amara che tutto però inesorabilmente passa, fluisce, scorre e ciò che resta è solo la Voce. Ovvero il Canto, ovvero Madre Poesia. Per cui in quel folle schianto tutto di lei si è fuso e confuso con la materia, tutto si è smarrito e dissolto ma la sua Voce è testamento di Bellezza. È sigillo sacro. Si può morire a trentadue anni? Si può morire da donna perdutamente innamorata e immensa poetessa? Quanto è ingiusta questa morte che stronca la vita? Quanto è ingiusto divellere l’utero e il suo frutto inviolabile ad una donna perché poetessa e artista? Domande davanti cui mi arrovello e struggo da donna e poetessa anche io. Ma ecco, carezzevoli i suoi versi per me e noi:
“Abbandonerò le linee rette,
abbandonerò il conteggio dei numeri
e dalle rigide forme della geometria
mi rifugerò nelle immense distese dei sensi.
Sono nuda, nuda,
nuda come i silenzi tra le parole d’amore
e le mie ferite
sono ferite d’amore, ferite d’amore …”
Forugh non era fatta per le linee rette ma per i voli, non era stata concepita per conteggiare numeri e per stare dentro rigide forme geometriche. Nessun poeta può farlo, nonostante le pressioni e le oppressioni. È impossibile. E se la domanda sua e mia resta: “Quanto bisogna pagare?”
La risposta non può che essere: “tutto”. Bisogna essere disposti a pagare tutto di sé e della propria vita. Perché tutto l’essere dei poeti è Canto. È Voce. Voce nuda ma eterna. Voce ferita ma voce che nutre e salva.
Bia Cusumano