La “taverna” palermitana
Oggi, il termine “taverna” è spesso usato in maniera dispregiativa.
In realtà è un’antica istituzione che radunava persone di vari ceti sociali che ha resistito nel tempo al cambiamento degli usi e costumi nei secoli.
Il termine taverna deriva dal latino “taberna” cioè: luogo dove si beve pagando, talvolta trovasi da mangiare.
Già nel XIII secolo, le taverne erano frequentate da aristocratici, plebei, prelati, artigiani, giudici, filosofi, fannulloni che volevano mangiar bene e trascorrere qualche ora divertendosi.
Le taverne palermitane hanno una storia molto antica.
Nell’anno 1434, il Pretore ed i Giurati di Palermo disciplinarono l’ubicazione e la gestione delle bettole della Città, che già esistevano da qualche secolo.
Non fu un caso che le taverne più famose si trovavano nell’antico Borgo di Santa Lucia, ubicato nell’odierna via Francesco Crispi in prossimità del porto; i primi osti della città furono i commercianti che provenivano dalla Lombardia che in questa zona impiantarono i loro magazzini e commerciavano vino, olio e carbone. Essi, abitavano prevalentemente in via del Lombardi, (odierna via del Borgo, tratto dell’odierna via Francesco Crispi), oggi non più esistente; intorno al 1545 formarono la Corporazione dei tavernieri e nel 1589-90 fondarono l’antica chiesa di Santa Sofia dei tavernieri, ubicata in via Vittorio Emanuele, oltrepassando la via Roma, sul lato sinistro all’interno di un arco, per espletare i loro precetti spirituali.
Dal 1600 in poi, le taverne divennero centro di piacere e di facili costumi.
La più famosa delle taverne fu quella “delli Casciara” (Cassari), che sorgeva nel quartiere Loggia o Castellammare, gestita dal lombardo Gian Maria Bassanelli e citata dal poeta Giovanni Meli come: “Chidda di li Casciara, cchi muderna”. I “Casciari” erano gli antichi costruttori di cassette di legno che costruivano anche scale a pioli, remi per le barche, “pile“ (per lavare i panni) ed altri generi di falegnameria.
Il Bassanelli, nato nel 1740 in un piccolo paese sul lago di Como, nel 1762 raggiunse a Palermo il cugino Andrea che come altri lombardi vi si era trasferito ed era diventato ricco esercitando il mestiere di oste. Iniziò come garzone di osteria e dopo la morte del cugino divenne proprietario. Grazie a lui, questa taverna oltre a svolgere l’attività ristoratrice diventò anche centro di cultura. Tra gli scaffali, furono posti libri che racchiudevano trattati letterari e tra quei tavoli si svolgevano tra i clienti dispute filosofiche e religiose, lo stesso Bassanelli interveniva da buon letterato. Le cronache del tempo raccontano che era di animo buono, amava il prossimo e ospitava barboni e bambini poveri gratuitamente. Alla sua morte, avvenuta il 29 agosto 1787, un gran numero di persone parteciparono ai solenni funerali che si tennero nella chiesa di San Giacomo alla Marina.
Un’altra taverna celebre fu quella della Ze’ Sciaveria (zia Saveria), ubicata nella località marinara denominata Romagnolo. Oltre alla brezza marina ed alla bellezza del panorama locale, il locale era noto perché la Ze’ Sciaveria aveva allestito padiglioni separati da tende, sia per non mischiare i componenti di diversa classe sociale, sia per occultare eventuali “incontri amorosi“.
Altre taverne, ricordate da Giuseppe Pitrè nella sua “Vita di Palermo cento e più anni fa”, che passarono alla storia sono: la taverna della Pasciuta, “a due passi da via Castro, con due porte ancora esistenti per permettere di seminare l’avversario in caso di bisogno”, frequentata anche da Cagliostro; quella della borgata Sette Cannoli (oggi Musica d’Orfeo), della Za’ Feliciuzza (che diede il nome all’omonimo rione), della Za’ Olivuzza (nell’attuale Corso Finocchiaro Aprile), all’estremità di piazza Ballarò si trovava la taverna della Perciata, aveva due porte per permettere di fuggire, citata anche da Luigi Natoli nei Beati Paoli, quella di Sbannuta (contrada Bandita), quella di Bravascu, anche questa citata in una poesia di Giovanni Meli.
Un’altra taverna nota fu quella della Contrada di Pallavicino. Un proverbio ancora in voga recita: “Pari ‘a taverna di Pallavicinu, unni ‘na vota manca l’acqua e ‘navota manca ‘u vinu” (Sembra di essere nella taverna di Pallavicino, dove una volta manca l’acqua, una volta manca il vino).
Dall’800 in poi, nelle nuove zone d’espansione, le taverne furono sostituite dai Caffè, frequentati soltanto da una elìte ristretta.
Ancora oggi, le taverne che si trovano nei quartieri popolari dell’Albergheria, Capo, Kalsa, Ballarò, Borgo Vecchio continuano a mantenere le caratteristiche originarie: ci si riunisce per bere un bicchiere di vino (oggi anche la birra), si consuma qualche tipica pietanza locale ma soprattutto si fa l’antichissimo gioco del “tocco”, che spesso genera risse.
Anche i giovani le frequentano però non amano dire: “Ci vediamo alla taverna.…”, perciò si riuniscono nei Pub.
La taverna o Pub, rimane un centro di aggregazione dove ci si incontra, discute e si beve.
Da sempre le taverne hanno avuto la nomea che i frequentatori siano oziosi e perditempo. Ciò indusse il poeta Giovanni Meli ad apostrofare il cliente abituale delle taverne come un “testa sbintata” (sconsiderato) che anziché lavorare “avìa pigghiatu a via di l’acitu” (aveva preso la via dell’aceto) e commentando la sua pessima condizione psico/fisica lo rimproverò dicendo: “Scutta pri quannu jisti a la taverna” (paga per quando sei andato alla taverna).
Oggi, salvo qualche raro caso, non è più così. Oppure no?
Santi Gnoffo