Mio padre oltre l’omissione concordata
Marisa Di Simone intervista Lorenzo Tosa
“Vorrei chiederti di quel giorno” è un viaggio emotivo, un viaggio a ritroso nel tempo. Un itinerario con una mappa da costruire, la topografia del crollo psicofisico di un padre che Lorenzo Tosa ha perso all’età di due anni. Si parte con un condizionale “Vorrei chiederti di quel giorno”, un modo verbale che nasce dall’anima per esprimere desideri, dubbi, ipotesi, richieste.
Cosa cerca un figlio orfano, a due anni, di un padre che ha deciso di abbandonare la vita? La verità! Quella che nessuno per quarant’anni ha voluto svelargli.
Ed il passato, sommerso, taciuto, ammorbidito, seppellito nella sua consistenza, riaffiora inaspettato nelle domande spontanee di un bambino che ha sete di sapere, curiosità di conoscere. È il piccolo Ludovico, il nipote di Bruno Tosa. Lorenzo, nella veste di padre e non più di figlio, si sente responsabile, si sente sollecitato da Ludovico a superare il dolore della perdita del proprio padre. Ha bisogno di affrontare quel muro del non detto che per tanti anni lo aveva protetto. Un muro fatto di santini agiografici, di educazione al silenzio, di una vera omissione concordata dalla famiglia a cui gli amici hanno aderito. Parlare di suicidio è quasi una colpa, una vergogna, un tabù, un marchio che scatena pregiudizi ed isolamento. Bisogna evitare, togliere e sostituire per suggerire una storia diversa che possa fare pace con la cruda realtà di chi ha deciso di fare un salto nel vuoto. Lorenzo però non si ferma davanti a quel muro, lo piccona intrecciando la storia privata di una famiglia che vive il dramma di un suicidio con la grande storia, quella degli anni della contestazione, delle lotte operaie, dei movimenti studenteschi.
La storia che racconti ha inizio con un’immagine molto intima, tuo papà che ti prende per mano e ti accompagna all’asilo, lo stesso giorno in cui si sarebbe suicidato. La storia privata della tua famiglia, diventa pubblica, s’intreccia con la grande storia ed inizia il viaggio. Non è quello che insieme a tuo figlio Ludovico stavi componendo nel puzzle che rappresenta la mappa del mondo, ma quello per ricostruire la storia di tuo padre attraverso un susseguirsi di pronomi: Io, Voi, Noi, Tu che scandiscono i capitoli del romanzo. Ci vuoi parlare di questa scelta?
Il racconto inizia con il pronome io di un figlio mai stato veramente figlio, che non sapeva nulla di questo ragazzo mai diventato uomo. Il mio io attraversa tutte quelle persone che lo hanno conosciuto ed amato. I loro occhi, sono quelli che mi hanno permesso di riappropriarmi della complessità ed interezza di questo essere umano per poter raccontare il voi, quello della politica. Il voi rappresenta coloro che hanno vissuto quella stagione nella dimensione fortissima dell’utopia. Poi dagli anni Settanta si passa agli anni Ottanta. Gli anni della disillusione, in cui il voi cede il posto al noi. Io, mio fratello, mia madre e mio padre. Lì inizia il racconto più intimo. È una ricerca negli anfratti più profondi della psiche di quest’uomo, un’indagine per ricostruire le tappe del crollo di un io che lo ha portato a quel tragico 2 Aprile 1986. Al termine di questo libro posso riappropriarmi di quel pronome, tu, che non avevo mai potuto rivolgere a mio padre.
Il silenzio è un filo conduttore della tua storia familiare, un silenzio condiviso, un po’per amore filiale, un po’ per scacciare comodamente altre implicazioni dolorose. Pensi di essere una vittima, un complice o semplicemente non pronto a scoprire quella verità che veniva nascosta dietro la costruzione del santino agiografico di tuo padre? Insomma doveva presentarsi un’occasione diciamo forte, scatenante per avviare l’indagine? O prima o poi questa urgenza, questo bisogno era solo latente e sarebbe affiorato come sete di verità?
Non mi sono mai sentito una vittima, neanche dopo aver scritto questo libro. Per tanti anni mi sono sentito complice e più si andava avanti in questo silenzio, più aderivo a questa omissione concordata. Il silenzio mi ha protetto, mi ha permesso di non raccontarmi come orfano di padre suicida. Io non ho mai saputo nulla di quest’uomo, anche perché io ho rifiutato di sapere. Ne avrei avuto la possibilità a sedici anni, a vent’anni, ma non ero pronto, forse avevo bisogno di ognuno di questi trentotto anni per fare i conti con questa storia. Gli anni dell’adolescenza sono stati molto difficili, mi sentivo inadeguato e mia madre consapevolmente ha scelto di non raccontarmi un fatto così importante. Forse perché temeva che quella storia potesse diventare parte di me ed allora ha scelto di aspettare che fossi io a chiedere. L’ho fatto quando sono diventato padre e mi sono reso conto che non solo avevo la responsabilità su mio figlio, ma anche su me stesso. Per essere veramente padre hai bisogno di riappropriarti della dimensione di figlio a me negata e che mi ero negato. Quindi in qualche modo Ludovico, mio figlio, mi ha fatto un dono, quello di riappropriarmi di una parte di me, non solo di mio padre.
Tuo papà è stato uno dei protagonisti di Lotta continua, anche se in seconda linea. Attraverso le testimonianze di quegli eventi, le conversazioni con i compagni di tuo padre, hai avuto la possibilità di avere una prospettiva nuova sulle organizzazioni extra-parlamentari, su come funzionavano, su cosa e come programmavano all’interno delle loro riunioni?
Pensavo ingenuamente di scrivere un libro su mio padre, poi a poco a poco, ascoltando le storie di chi lo aveva conosciuto ho capito per certi aspetti che stavo scrivendo un romanzo corale. Oltre a mio padre, c’era un’intera generazione che aveva segnato profondamente quegli anni. Anni di piombo, in cui si viveva con la paura che da un momento all’altro potesse esserci un colpo di Stato.
Lotta continua, di cui faceva parte mio padre, è stata un’organizzazione che aveva un progetto, ma era anche piena di contraddizioni. Le idee non nascevano da una teoria politica astratta ma dalla prassi e quella era la politica di quegli anni, ci s’identificava in quelle idee. Bruno si identificava in Lotta continua, era quasi come un padre ed una madre insieme. I giovani di allora credevano nella dimensione collettiva che ad un certo punto si è frammentata. Ognuno ha cercato strade diverse ripiegandosi nell’individualità di una famiglia o nell’affermazione di un lavoro. C’è però chi si è perso, si è smarrito magari nell’eroina. E poi c’è chi, come mio padre, non è riuscito più a trovare un suo spazio nel mondo, un centro di gravità permanente. Raccontare quegli anni attraverso gli occhi di un militante di “Lotta continua”, come mio padre, permette di coglierne l’essenza, fatta soprattutto di persone come lui.
Gaber diceva che quella generazione ha perso, tu sei convinto che sia così o i semi che hanno gettato sono ancora generativi pur nelle tante contraddizioni? Pensi che siamo capaci di accogliere, difendere l’eredità di quelle conquiste sociali o siamo adagiati nella confortevole routine quotidiana, nella quale pensiamo di avere tutto sotto controllo, assonnati in un oblio privo di domande?
Gaber sbaglia, quando parla di generazione che ha perso. Quei giovani credevano di cambiare non solo la politica ma anche la società, il modo di vivere il mondo, gli amori, le amicizie. Da quel punto di vista hanno perso, ma non da quello della politica. Le conquiste dei diritti civili e sociali derivano da quegli anni e la mia generazione ne beneficia senza alcun merito. Penso allo statuto dei lavoratori, al lavoro precarizzato, umiliato e calpestato. Penso al divorzio messo in discussione nella forma ed anche nella sostanza, non tanto in una legge ma in un’idea di mondo. L’aborto è una legge che per mia madre è stata importante. Lei per trentacinque anni, abbandonata da tutti, è stata l’unica ginecologa all’ospedale villa Scassi di Genova, a garantire questa legge. Una conquista spogliata della sua essenza se si permette ai ginecologi di non applicarla. Oggi siamo disillusi, deleghiamo ad altri il cambiamento ed invece questi uomini, Bruno in testa, credevano di poter cambiare il mondo.
La tua inchiesta rivela uno scontro generazionale che non è un semplice scontro di opposizione adolescenziale a cui siamo abituati oggi con i nostri figli, qui stiamo parlando di uno scontro tra padri e figli gravissimo, di uno spartiacque tipico di quel periodo, vuoi parlarcene?
Lo scontro tra padri e figli non riguardava solo nonno Teresio e mio padre Bruno, ma tutta una generazione. Erano giovani che ad un certo punto fino all’uccisione di Moro hanno deciso di riappropriarsi della piazza della politica, di combattere contro il sistema. E non solo contro quello, si scontravano anche con i loro genitori. Mio nonno Teresio era una persona profondamente conservatrice, retrograda, era un monarchico. Pensate quest’uomo che si ritrova con due figli comunisti. Lui che era stato per tutta la vita un radicale e che aveva fatto delle battaglie anche politiche importanti a Genova. Nonno Teresio aveva previsto tutto per i figli, loro però avevano deciso di vivere la dimensione politica come anche un tentativo di andare contro al padre. Ad un certo punto Teresio si rende conto di non aver mai capito suo figlio Bruno così perso ma anche così idealista. E questa è diventata la tragedia che poi si è portato fino alla tomba e questa è stata una delle ragioni più profonde di quella omissione giunta fino a me.
Considerando il ruolo significativo che molte donne, inclusa tua madre, hanno avuto nella storia di tuo padre, in particolare nel contesto del movimento del ’68, ti chiedo: quanto è stato difficile per te esplorare e rendere pubblico il lato privato ed affettivo delle relazioni familiari? E, considerando la delicatezza della vita privata, hai mai sentito la necessità di proteggere alcuni aspetti della storia di tuo padre?
È una domanda che mi sono fatto spesso. Tante persone, ancora in vita, hanno fatto parte profondamente di questa storia, soprattutto mia madre. È stata lei a tacere di più, ma non l’ho mai biasimata, ne ho sempre compreso le ragioni. Immagino una donna di trentacinque anni, tornare a casa la sera dall’ospedale e ricevere al telefono da un commissario la notizia del ritrovamento del corpo del suo compagno. Da quel giorno, ha cercato di evitare di parlare della morte ed anche della vita di mio padre. Così, dopo trentotto anni, è stato difficile per lei accogliere il mio desiderio di sapere. In questo libro non ci sono risposte definitive, ma molti interrogativi, perché non ho gli strumenti per fare affermazioni assolute riguardo al suicidio di mio padre. Vi invito a riflettere e a trovare risposte, non solo riguardo alla mia storia personale, ma anche sulle molte domande che il suicidio solleva nella nostra società.
Il suicidio è un tema di cui si può parlare, scrivere liberamente senza veli? Parlare di salute mentale è un tabù? Secondo te cosa bisogna fare, soprattutto nell’ambito del disagio giovanile che spesso porta i giovani a dare un addio alla vita?
In quel contesto storico era veramente un tabù, un macigno. Chi soffriva di disturbi mentali erano i pazzi, i matti, quelli che dovevano essere ricoverati. Questa era la visione che anche mio padre aveva della malattia mentale ed è anche una delle ragioni per cui non ha fatto abbastanza per quei disturbi psichici mai accettati. Ha rifiutato l’aiuto, i farmaci, tutto in nome di una visione della democratizzazione della medicina, che impediva di affrontare il tema della salute mentale con quella consapevolezza che oggi abbiamo un po’ di più. Certo c’è ancora tanto da fare contro lo stigma ed il pregiudizio. Ancora oggi il suicidio è qualcosa di impronunciabile o da pronunciare a bassa voce. Quello che ho provato a fare è alzare il volume della voce, cercare il confronto senza tabù e stigmi, perché è da lì che riusciamo ad estirpare quella che per me è stata l’omissione concordata ma che ho scoperto pure nella nostra società.
Rimangono ancora dubbi, incertezze alle domande che attraversano una vita lunga solo trentatré anni? La ricerca è finita o continua dopo il romanzo?
Questo libro per me è veramente un cerchio che si chiude, se oggi tornassi e provassi a riaprire questa storia di nuovo significherebbe tornare indietro. Non rispondo con questo libro alla morte di un uomo, non sto cercando di dare risposte, forse impossibili, sul suicidio. Il suicidio è qualcosa di troppo complesso, intimo e privato e collettivo insieme. Riguarda la dimensione familiare e quella sociale. Quello che mi ha restituito questo libro è la vita, che è molto di più della morte, è molto più ampia di quel singolo giorno. Oggi posso dire di sapere chi è stato mio padre e questo per me è il dono più prezioso ed inestimabile che io possa ricevere ed è giusto che finisca così.
Le parole non dette, che non hanno coraggio, che sono cadute soffocate nel vuoto acquistano forza se cercate, interrogate ed ascoltate. Nelle testimonianze, nei documenti, nei luoghi e nelle persone Lorenzo Tosa ha cercato suo padre, ed in questo chiedere si è modificata la verità di un passato sommerso, i fatti hanno acquistato un’altra dimensione. Deformare una realtà si può? Il malessere esistenziale, la fragilità mentale non può essere taciuta. Bisogna capire il disagio, accogliere le richieste di aiuto, sostituire la cecità con l’ascolto e lo sguardo empatico. Quando le regole, le tradizioni, i compromessi diventano così insopportabili da creare una frattura, una dissociazione sempre più profonda tra la propria visione personale ed il mondo reale, non bisogna semplificare, ridurre all’ordinario. L’inchiesta di Lorenzo Tosa getta un occhio profondo sul disagio psichico, sulla depressione e sulle sue conseguenze. Chi vive un disagio esistenziale, soprattutto quelle fasce di popolazione fragili, come i giovani e gli anziani, lancia segnali che ci mettono alla prova ed allora non soffochiamo le domande con risposte rassicuranti che normalizzano e deformano. Indossiamo il dubbio, la cura, l’accoglienza per tessere reti di reciproco aiuto, perché l’addio alla vita non è solo un fatto privato.