Recensione di “Amare è un verbo di movimento”
Diceva Francois Truffaut: “L’amore è il soggetto dei soggetti. Occupa un tale spazio nella vita, […] che se mi si provasse, statistiche alla mano, che nove film su dieci sono sull’amore, direi che non basta… In amore non esistono i poveri. Questo grande motore umano è anche il nostro comune denominatore.”
Quindi, se è vero che non esiste essere umano che non abbia attraversato l’esperienza amorosa, è altresì vero che è impossibile parlare d’amore adoperando un linguaggio prettamente scientifico. Infatti l’amore attiene alle sfere più recondite dell’uomo, si ascrive all’ambito dell’indicibile, dell’inspiegabile, esattamente come sono ineffabili i sentimenti. Ragion per cui, coloro che più degli altri sono in grado di parlare dell’amore, di spiegarne i misterici meccanismi, sono gli artisti, e in particolare i poeti.
Infatti i poeti, per raccontare la fenomenologia amorosa, dalla sua nascita alla sua morte, si servono di immagini attinte dalla loro anima, in cui successivamente si rivede il lettore facendole proprie. Il lettore riconosce sé stesso e ritrova le tappe del proprio personale percorso amoroso nella poesia. Lo spiega benissimo Majakovskij in una lettera a Lili Brik, sua amante: “L’amore è la vita, la cosa principale. Dall’amore si dispiegano i versi, e le azioni, e tutto il resto. L’amore è il cuore di tutte le cose. Se il cuore interrompe il suo lavoro, anche tutto il resto si atrofizza, diventa superfluo, inutile. Ma se funziona non può non manifestarsi in ogni cosa. Senza di te (non senza di te “nella lontananza”, interiormente senza di te) io cesso di agire.”
Ecco il controcanto della poetessa Simona Lo Curto: nella poesia “Piccolo”, tratta dalla silloge “Amare è un verbo di movimento”, leggiamo: “Questo amore piccolo / sta in questi futili versi / piccola sinossi stentata / di parole semplici // È lui / è questo amore piccolo / appuntito fastidioso / insopportabile maledetto / benedettissimo / sassolino nella scarpa / che accompagna ogni nostro passo”.
L’Autrice si serve della poesia per raccontare un amore dai “muri cadenti”, cui ha dato “il piccolo potere” d’infliggerle “grandi ferite”. Per cui, se da un lato questo sentimento ha avuto il merito di risvegliare in lei una vita avvizzita, dall’altro lato le ha inferto un’enorme sofferenza. Lo Curto esplora le contraddizioni tipiche del sentimento amoroso senza maschere, facendo luce dentro sé stessa, e dentro i propri comportamenti, esattamente come un albero rovesciato i cui rami “puntano al buio”: si rivede nella figura mitologica della sirena, non ha paura della profondità, proprio come scriveva Anais Nin. Una sirena che inizialmente canta l’esistenza di un sogno, dolendosi poi della sua “coda ferita”; e infine “sorride di dolori passati”, e consapevole asserisce: “Qui il mio canto non incanta / La terra non è fatta per le sirene”.
Tutto questo perché, se da un lato “Amare è un verbo di movimento”, che induce l’Autrice a uscire da sé stessa per protendersi verso l’Altro, alle cui richieste tende a uniformarsi per piacergli e per costituire con lui quell’unità di cui sente la mancanza, dall’altro lato questo stesso verbo la fa sbattere contro il muro opposto dall’uomo di cui è innamorata. Scriveva Lacan nel suo “Il seminario”: “L’amore implica il muro. L’A – muro. L’amour è a-muro. Il muro è il muro del linguaggio. Il linguaggio è un muro nel senso che è una struttura di separazione. L’esistenza del linguaggio separa il soggetto dal corpo da cui viene, cioè dal luogo del godimento incestuoso.” E, nel libro I de “Il Seminario” scrive: “Esiste un punto in cui s’arresta, un punto che non si situa altro che nell’essere; quando l’essere amato va troppo lontano nel tradimento di sé stesso e persevera nell’inganno di sé, l’amore non lo segue più.” Ed è a questo punto che Simona scopre sé stessa e l’amore verso di sé come viatico di salvezza.
Ecco perché il libro si divide in tre parti. Nella prima, intitolata “Amare”, l’Autrice ripercorre la fase alborea del sentimento amoroso, quella in cui ne riconosce l’esistenza, dal latino ex – sistere: l’amore si apre all’esterno dando colore e gioia alla vita proprio grazie all’incontro con l’altro, e si manifesta come desiderio, anche sessuale. Scrive: “Nessuna cosa è bella / dove tu non sei / Non c’è scampo né soluzione / se anche un albero / piegato dal vento / mi parla di te”. E in “40°”: “ci sei tu nelle dita adesso / Nei versi umidi di te / il tuo sapore / Tu / nel ventre”.
Ma l’amore non acceca, per citare Roland Barthes che asseriva: “L’amore spalanca gli occhi, rende chiaroveggenti: di te, su te, io posseggo tutto il sapere. Dice il sottoposto al padrone: tu hai potere su di me, ma io so tutto di te.”
Subito Simona si rende conto di avere davanti a sé un “Adultero”, per come scrive nella poesia che porta questo titolo: “All’improvviso / ti vedo per quello che sei / Una brutta abitudine che / con un po’ di attenzione / sparisce per sempre”. Adultera la realtà il manipolatore anaffettivo, che non si lascia coinvolgere dal sentimento amoroso per usare l’altro. Leggiamo nei versi della poesia “Immagino”: “Io non immagino / tu possa riconoscere / il tremore di un cuore / che si fa fiore per te”.
Il linguaggio si fa crudo, e la Poetessa è spietata anche con sé stessa. Ragion per cui, nella poesia “A mani giunte” scrive: “A mani giunte vengo da te / pregandoti un amore che non meriti // Non importano più le vene aperte / senso hanno perso le lacrime / come gli aculei il loro veleno // […] Sono qui / ancora e sempre / a mani giunte / a perdonarti per donarti amore”. Via via che va avanti nell’onesta analisi di sé, riconosce il carattere morboso del suo attaccamento a un uomo che ne approfitta per farle del male.
Affronta l’aspetto patologico della relazione nella seconda sezione della silloge, dal titolo “Verbo”. Scava dentro il suo Io irrazionale, che chiama “La bestia”, da cui scaturisce la sua dipendenza. Ne individua le ragioni più profonde nella mentalità patriarcale da cui è soggiogata. Scrive infatti: “Ho chiesto alla bestia cosa vuole da me […] Ha urlato con alito pesante / i miei triti doveri cui obbedirò tacendo // Dovrò farmi // terra battuta per le tue corse / […] Sarò vergine per la tua passione / nella pudica attesa della tua forza / donna bambina / di nuovo donna // Domani ti voglio elegante / Mi aspetto di morire nel tuo ventre”. Nella poesia “A volte” riconosce i tratti di questa educazione al perdono e al sacrificio nella figura tradizionale della madre: “La madre partorì senza anestesia / figli ciechi sordi storpi / figli belli bellissimi / Urla e strepiti non guarirono / occhi annacquati / sorrisi incerti sfiniti”. Dal confronto con l’archetipo della madre la poetessa acquista consapevolezza del suo approccio materno nei confronti del partner. Infatti aggiunge: “le braccia strinsero / il male andò via”. L’amore di una madre per il figlio giustifica un’infinita capacità di sopportazione del dolore, che in suo nome si annulla: “A volte / le ombre della notte / non fanno paura // A volte”. Ma Simona non ha davanti a sé un figlio da proteggere e amare, ma il suo carnefice.
Da questo riconoscimento nasce la terza parte della raccolta, intitolata “Movimento”. Si apre con una poesia ambivalente, in cui la poetessa invoca il suo uomo di ucciderla, affinché la liberi lui dalla dipendenza ossessiva nei suoi confronti: “Muoviti piano / quando deciderai di uccidermi // […] Fa’ che il mio respiro / non si fermi più alla tua vista”. Gradualmente, però, il movimento di cui parla Simona diventa espulsivo di un’altra sé, finalmente libera di volare senza lacci. In “Conversazioni con Dio” Neal Donald Walsch afferma: “Quando non ci si consideri a vicenda come anime sante impegnate in un sacro viaggio, allora non si riesce a vedere lo scopo, il motivo, celato dietro ogni rapporto. L’anima è venuta al corpo e il corpo alla vita con lo scopo di evolversi. Ti stai evolvendo, ti stai adottando. E ti stai servendo dei tuoi rapporti per decidere quello che stai diventando”. Scrive la poetessa: “Il tuo volto è un bosco / che nasconde il paesaggio / ed è pessima l’idea di volare / attaccata a un palloncino”. Per cui la silloge si chiude con la poesia “La nuova me”, in cui leggiamo: “La nuova me / corre / sulle grate dei marciapiedi / È calore e passi fermi / su sentieri di sassi // […] La nuova me / è ciò che ancora non conosci // Mi chiedo dove sia finita / la vecchia me // È impegnativo essere donna”. Il travaglio è avvenuto in un tempo la cui misura è data dall’enorme sofferenza patita dall’Autrice, ma è stato proficuo. Del resto, proprio su questo tema scriveva Clarissa Pinkola Estés: “Non esiste trasformazione senza fatica. Sappiamo di dover bruciare fino in fondo, e poi sederci sulle ceneri di colei che un tempo pensavamo di essere e ricominciare da lì.”
Stilisticamente le poesie presentano un linguaggio scarno, essenziale, attinto dal quotidiano; la punteggiatura è minimale. La poetessa mette efficacemente a nudo il sentimento amoroso e i movimenti tellurici suscitati in chi lo prova, che sovvertono ogni certezza, dimostrando però come, ripiegandolo verso sé stessi, ci si possa, anzi ci si debba salvare da un rapporto disfunzionale.
Ornella Mallo