Recensione de “La fornace”, cortometraggio di Daniele Ciprì
Ad una prima e ingannevole visione, il film “La fornace” sembrerebbe un’opera destinata esclusivamente a un pubblico siciliano. Appare infatti, a tutta prima, come una dissacrazione dell’Opera dei Pupi, autentico cuore pulsante della cultura tradizionale isolana. Lo spettatore siciliano, dunque, potrebbe essere erroneamente ritenuto il solo a detenere gli strumenti atti a comprendere il cortometraggio in questione, da cum – prehendere latino, ossia a entrarvi dentro, immedesimandosi totalmente nello spirito dell’Autore.
Il film è stato realizzato dal pluripremiato regista siciliano Daniele Ciprì. L’attore siciliano Salvo Piparo dà voce ai Pupi, che, terrorizzati, parlando in dialetto chiedono di essere sottratti alle grinfie del cinico puparo Marcello, interpretato dall’attore Giorgio Portannese. Le ambientazioni sono siciliane, ossia le Antiche Fornaci Maiorana di Salvatore Maiorana, e l’ex Cinema Ambra di Palermo. La meravigliosa fotografia in bianco e nero esalta la deformità delle figure del film, che rimanda ai mostri di villa Palagonia a Bagheria, quindi ancora una volta conduce alle fondamenta della sicilianità. Il tutto porterebbe quindi a pensare che l’Opera sia circoscritta e destinata a una fetta parziale di pubblico.
Ma il primo a sottolineare come la Sicilia sia metafora di universalità è stato Leonardo Sciascia che, nel numero del giornale “L’Ora” del 30 maggio 1961, contestando la tesi di Gentile che alla tradizione culturale siciliana non riconosceva “grande importanza storica”, data la sua condizione di separatezza dal resto del mondo, e le sue caratteristiche identitarie, scriveva così: “È la letteratura siciliana che porta all’affermazione di valori la cui sicilianità è misura di universalità, nel senso che quanto più profondamente esprimono la realtà siciliana tanto più assumono universale validità”. Affermava con forza, quindi, come la Sicilia si potesse considerare un “luogo sperimentale, un universale stratificato”.
Ad uno sguardo più approfondito, allora, la condizione dei Pupi non è dissimile da quella umana. Scriveva Pirandello ne “Il berretto a sonagli”: “Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io pupo lei, pupi tutti!”
L’omologazione dei tempi di oggi, voluta dai poteri occulti, e la conseguente spersonalizzazione, importa un appiattimento del pensiero e una condotta conforme a quanto impongono i potenti, che a tale scopo manipolano in modo subliminale i mezzi di comunicazione e i social. Altro strumento di cui si avvalgono le classi politiche che stanno al comando, è la svalutazione delle tradizioni culturali. Il popolo in questo modo perde l’identità che lo contraddistingue da tutti gli altri, formatasi lentamente nel tempo.
La fornace in cui è recluso Marcello è allora la metafora della prigione in cui è costretta la nostra società; la distruzione che opera in modo vandalico il puparo, percuotendo i pupi e sciogliendone il metallo, la violenza che perpetra ai danni di Bradamante, sia imbrattandola sulla bocca per impedirle di parlare, sia stuprandola, sono metafore dei danni che produce la barbarie dei tempi di oggi, che senza pietà annienta il proprio patrimonio culturale, producendo brutture e mostruosità che si ritorcono contro.
Infatti, il Golem che viene costruito dal Puparo squagliando i pupi, si ribellerà e lo strozzerà, liberandosi dalla prigionia; e guarderà dall’alto un cimitero di mummie clonate, che girano in tondo in cerchio chiuso, senza nessuna direzione e nessun futuro. La società consumistica considera un intralcio la consapevolezza e la creatività degli uomini, e li allontana da sé stessi: vuole che siano ingranaggi della macchina del potere, che agiscono in modo automatico, senza pensare. Il che equivale a decretare la morte civile dell’uomo e la perdita della sua libertà di autodeterminarsi.
Ne “La memoria della lingua” Andrea Zanzotto scrive: «La grande “novità” economica è talmente regressiva, dal punto di vista di un armonioso sviluppo umano, da crescere su sé stessa quasi in modo acefalo. E ha finito per rendere tutto più liso, più fragile, senza alcuna forma di pietas capace di saldare “passabilmente” ciò che fu a un presente sempre più puntiforme e a un futuro tanto brulicante di possibilità, quanto enigmatico, per non dire torvo.»
La fotografia in bianco e nero entra dentro gli oscuri anfratti del mondo interiore, mettendo in risalto l’aspetto grottesco che giace dentro di noi, con il quale non ci vogliamo imbattere, nascondendolo perfino a noi stessi. Riproduce esattamente le nostre ombrosità, che possono prendere il sopravvento sulle luci se non si lasciano prevalere il cuore e la ragione; l’aggressività può prevaricare sulla mitezza portando il genere umano al suicidio. E la salvazione delle tradizioni siciliane si fa metafora della necessità di proteggere la cultura e la memoria di tutti i popoli, perché solo salvaguardando la loro identità può essere tutelata l’unicità dell’essere umano.
È lo stesso Daniele Ciprì a confermare la giustezza di questa interpretazione. Dichiara infatti: «Il corto nasce da un percorso sull’immaginario e da una riflessione umana e artistica sull’uomo e sull’arte. L’arte non è solo intrattenimento ma è anche riflessione, nella follia c’è arte. Abbiamo voluto fare una riflessione sull’arte, sull’umanità e su quello che sta succedendo oggi, compreso la guerra. Mi sono chiesto chi potesse fare una riflessione sincera e attuale e ho trovato la mia risposta nei pupi che, proprio perché privi di anima, non sanno, non conoscono, non capiscono ma continuano a esistere perché siamo noi ad animarli. Ne La fornace i pupi vengono distrutti per costruire un uomo grande, un uomo di potere. È una grande metafora di quello che sta succedendo oggi, in cui stiamo abbandonando l’arte come punto di riferimento per delle vere riflessioni».
Il cinema si conferma allora una forma d’arte capace di scuotere e sobillare le coscienze. In quanto tale, è in grado di cogliere l’essenza, e di discernere l’aspetto materialistico e asservito al denaro del vivere sociale, da quello idealistico, che sfugge a una valutazione in termini economici, e raggiunge l’Universale e l’Eterno.
Concordiamo con quanto scrive al proposito il regista Werner Herzog: «Sono stato sempre interessato alla differenza tra “fatto” e “verità”. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei “verità estatica”. È più o meno come in poesia. Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda, inerente verità, una verità estatica».
Definirei senz’altro, allora, poetico il film di Daniele Ciprì, proprio perché, servendosi di un linguaggio surreale, ci consente di cogliere la verità celata dalla classe politica dominante, che aspira a un controllo e a un dominio totale del pensiero.
Bravissimi tutti coloro che hanno collaborato per la realizzazione di questo film, dagli sceneggiatori Giovanni Cannizzo e Fabrizio Lupo, a Marco Cannilla e Mauro Spitaleri che hanno interpretato il film insieme agli attori su citati.
Ancora una volta Daniele Ciprì si rivela un autore profondo e niente affatto banale, originale nel proporre una modernissima chiave di lettura delle tradizioni, mettendone in risalto le potenzialità generative, che possono condurre a un nuovo umanesimo se opportunamente valorizzate.
Ornella Mallo