Questa finta pace
In un romanzo storico l’ambientazione è reale e riporta le condizioni e le vicende del contesto fisico e sociale del tempo del racconto. In questo mondo vero si muovono protagonisti che invece nascono dalla fantasia dell’autore, ovvero sono ispirati a uomini e donne realmente esistiti, ma reinventati con l’obiettivo letterario di trasformare una cronaca di un’epoca passata in – appunto – un romanzo, cioè in un racconto rivolto a una moltitudine di lettori sconosciuti, in cui ciascuno di essi dovrà trovare tra le pagine qualcosa di se stesso.
Perché ciò sia possibile, un romanzo deve avere la capacità di far vibrare quelle corde dell’anima che si trovano in tutti gli uomini, che sono universali, cioè principalmente i sentimenti: nel dolore e nella felicità, nell’amore e nell’odio, nella pena e nel rimorso, nell’ambizione e nella paura, ciascun lettore può riconoscersi.
La città del giardino dei cedri è un romanzo che contiene rigore storico e umana universalità. Per entrambe queste componenti l’autore fa una scelta difficile e originale perché gioca sull’intrecciarsi di due storie: due protagonisti si muovono in due epoche e in due paesi molto diversi e vivono due guerre mondiali. I conflitti che nel secolo scorso hanno stravolto il mondo sono visti con i differenti sguardi di Benedict e Frank, padre e figlio.
L’autore affronta la complessità e l’ampiezza dei contenuti attraverso una tecnica narrativa che privilegia visioni di scorcio.
Il filo conduttore della storia passa quasi in secondo piano: emergono piuttosto moltissimi dettagli ed episodi, tutti come rilevati per caso da un osservatore di passaggio, che li annota e va oltre.
Temi di grande respiro sono narrati con attenzione all’umano quotidiano. È come se le vicende dei protagonisti abbiano il ruolo di un’impalcatura che sostiene fatti, aneddoti, paesaggi, emozioni e comportamenti che rappresentano il grande mondo intorno a loro.
Ma – sta qui l’abilità del narratore – ogni tessera è emblematica in sé, e il loro insieme compone l’affresco completo della violenza delle guerre – sia nelle sconfitte che nelle vittorie – e dei destini e dei territori comunque coinvolti.
I soldati americani arrivano in Sicilia informati da una “Soldier’s Guide to Sicily” che descrive i Siciliani come sporchi, litigiosi e gelosi. Ritengono che sia più facile conquistarli con la cioccolata e le sigarette perché loro non sono disposti a morire per nessun padrone o governo.
Dopo lo sbarco dell’operazione Husky, il percorso di occupazione nella Sicilia dell’interno si dipana attraverso informazioni sulla colonna di autocarri e jeep che si fermano e poi ripartono e poi si fermano ancora e poi girano la chiave perché il motore non si surriscaldi. Lungo la strada, istantanee: l’abbeveratoio, la neve vista da lontano, i bambini che si spruzzano e poi i soldati cominciano anche loro a bagnarsi per cercare sollievo al caldo.
L’emigrazione è l’interminabile viaggio in nave, che si conclude con le urla felici dei viaggiatori di terza classe alla vista della costa americana. I raffinati passeggeri della prima classe li osservano con disprezzo dal ponte superiore “… non tralasciando ogni tanto uno sputo su quella massa accalcata.” La Statua della Libertà a Ellis Island a New York emerge dalle migliaia di braccia tese a indicarla e ancora sono grida di gioia, stavolta provengono nello stesso modo dalle diverse classi di passeggeri.
La fame è la penuria di cibo a Palermo, le ruberie nei mercati, i saccheggi e le aggressioni ai camion militari, il potere di chi comanda la borsa nera, ma soprattutto è il contrasto con l’abbondanza accessibile a chi può pagare in dollari.
Palermo è la camera dello scirocco, il romanzo dei Beati Paoli, Villa Igea e il Liberty, il gioco d’azzardo a Villa Deliella, il panorama di cupole e dell’immenso mare, e anche gli ammassi di rovine nei vicoli dopo i bombardamenti…
È un modo capovolto di raccontare: il narratore onnisciente riesce davvero a sparire e il risultato di questa abile tecnica narrativa è che il lettore ha l’impressione di essere lì, a vivere insieme a Frank e a Benedict le loro avventure.
Il tempo ha lo stesso carattere frammentato. I capitoli alternano momenti della vita di Benedict e quella di Frank. Benedict è Benedetto finché vive a Palermo, la sua storia a volte si sviluppa in periodi conclusi, e a volte sono lampi di ricordi di suo figlio Frank.
È un gioco di scatole cinesi che può confondere, ma che certamente dimostra una grande sicurezza dello scrittore che poi, come per magia, ricompone i fili.
Il romanzo di Pasquale Morana si muove in un contesto insolito e originale: i circa otto mesi (luglio ‘43/febbraio ’44) in cui la Sicilia è amministrata dall’AMGOT, il governo provvisorio formato dall’esercito americano per traghettare i territori “liberati” verso un governo non più fascista.
Frank, tenente dell’esercito americano, ferito durante lo sbarco in Sicilia, è a Palermo per un’operazione chirurgica alla gamba. È l’occasione per cercare le ragioni che nel 1919 hanno portato suo padre Benedetto a emigrare negli Stati Uniti, a diventare Benedict.
Osserva la città, descrive atteggiamenti e sentimenti delle persone – dei palermitani oppressi dalla fame, di quelli che colgono l’opportunità per assumere potere, dei componenti dell’AMGOT che si muovono tra incomprensione e opportunismo, di chi difende valori umani e dignità a qualunque costo, di chi vede ancora bellezza in mezzo alle rovine, di chi trova l’amore, che è sempre la fonte della felicità e dell’incanto anche in mezzo al dolore e ai disastri della guerra.
Non c’è giudizio nel romanzo di Morana, non c’è una presa di posizione e forse è giusto così. Non è compito di un’opera letteraria prendere posizione rispetto a un dibattito storico-scientifico approfondito sulle responsabilità del governo americano nell’avere affidato potere economico e politico alla mafia.
Invece narra con la levità di un cantastorie l’insediamento nel governo di personaggi discutibili e compromessi, come Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini, l’ambiguità degli amministratori dell’esercito americano, che neanche conoscono la lingua né il dialetto, ma per loro “…è più utile fare patti con la parte peggiore…” per “…potere comandare senza intoppi.”
Il vuoto di potere causato dalla cancellazione della classe dirigente fascista e di tutte le leggi promulgate nel periodo della dittatura determina un vuoto di potere. La ricerca della soluzione si muove in un equilibrio precario perché deve fare i conti anche con la paura del pericolo comunista. Questo difficile conflitto si legge in poche parole, ma dietro c’è un mondo.
“Ci sono cose che non capisco, sai, mi sono occupato del controllo e del recupero delle armi dei civili, abbiamo chiesto a tutti i cittadini la consegna di quelle da fuoco… Ho visto in fila tanta brava gente, commercianti, contadini, anche cacciatori, che consegnavano i loro fucili, vecchie pistole, spesso dell’anteguerra. Ma come è possibile?… mi ha autorizzato a fare delle retate e delle perquisizioni a sorpresa…. Non c’erano uomini per i rastrellamenti…”
L’ingenuo Frank americano è sorpreso, l’autore invece attraverso un piccolo racconto comunica un’immensa conoscenza della Sicilia.
È un doppio livello di lettura.
Uno segue le vicende dei protagonisti, il racconto vero e proprio.
Frank, il suo arrivo in Sicilia e poi a Palermo, la volontà di scoprire i motivi che hanno portato suo padre negli Stati Uniti, la sua scoperta della città, l’amicizia con Luca, l’amore con Lucia.
Benedetto, la Grande guerra, la prigionia, il ritorno a Palermo, la partenza e poi l’integrazione negli Stati Uniti, l’amore e la famiglia.
Me è il secondo livello di lettura, quello che si nutre di un’infinità di particolari, che rimane più impresso perché crea un affetto che si arricchisce con lo scorrere delle pagine.
C’è poi un altro contesto: gli Stati Uniti. Solo apparentemente meno importante del primo, ma invece da sottolineare perché portatore di positività. Lì le comunità – italiana, siciliana, irlandese… – hanno un rapporto di collaborazione, di scambio, di solidarietà reciproca. Benedetto (Benedict in USA) sposa Louise che è irlandese, la sua è una famiglia mista e Patrick, il padre di lei, ne è parte integrante e significativa.
L’ebanista Giuseppe, che a seguito di un incendio rimane solo con i figli e poverissimo, viene sostenuto da tutta la comunità di Little Italy, che gli trova un lavoro presso un falegname russo, che lo accoglie e gli apre le braccia.
L’intera narrazione si sviluppa in un’apprezzabile assenza di retorica. È un elemento da sottolineare, in quest’epoca in cui il linguaggio è troppo spesso vuoto strumento per persuadere ma non per coinvolgere, cercando l’approvazione di tesi precostituite (e purtroppo di solito banali). Siamo lontani da ideologie forti, auliche convinzioni, prodi obiettivi.
Ma l’elemento davvero amabile nel romanzo La città del giardino dei cedri è l’umana universale malinconia che pervade l’intera narrazione, è la sensibile attenzione a tutte le vittime, indipendentemente che siano vinti o vincitori o del tutto esterni alle vicende belliche.
Lo sguardo dell’uomo è quello del soldato. Frank, giovane americano di origine italiana si ritrova sulle coste delle Sicilia meridionale, dove l’esercito USA è sbarcato in forze e per vincere una guerra e scacciare una dittatura.
La mente di Frank vagola tra ricordi del paesaggio di Palermo che gli ha fatto suo padre Benedict e le immagini della campagna aspra, vuota, che ha intorno, sovrastata dall’Etna e punteggiata da paesini accucciati sulle alture. Lo sguardo di pena si rivolge ai suoi soldati ma anche ai soldati nemici, ai civili distrutti e al ricordo di sua madre che lo mandava a comprare la frutta, era negli Stati Uniti e il fruttivendolo parlava solo il siciliano.
Lo sguardo e i sentimenti del soldato Frank – e con lui e come lui di tutti i soldati di qualunque schieramento – oscilla: uno dei veri valori di questo romanzo è l’incertezza, la mancanza di riferimenti sicuri, l’ambiguità come caratteristica propria dell’uomo.
“I soldati italiani camminavano con le mani in alto… Uno di questi soldati guardava in lacrime l’accoglienza festante agli invasori, mentre per loro nessuna considerazione, nessuna pietà da parte della popolazione. Eppure erano italiani come lui, ma che popolo era quello che disprezzava l’amico per festeggiare il nemico?”
I civili in guerra sono “… pedine, masse di disperati da manipolare con proclami roboanti…”
Alla fine della prima guerra mondiale, i prigionieri liberati “… per volontà del governo italiano erano considerati alla stregua dei disertori… All’arrivo al confine italiano furono fatti scendere tra due cordoni di Carabinieri: sembravano più prigionieri di prima.”
Frank “si sentiva una pedina, un pupo.”
“Questa finta pace.”
E poi ci sono le donne. Frank e Benedict guidano un piccolo drappello di personaggi maschili, significativi ma non determinanti. L’intero romanzo è invece pervaso da una rete femminile che introduce sentimenti forti, che avviluppa il mistero e poi consente di scioglierlo, che con le loro lettere, i loro pensieri, i loro discorsi, illuminano di volta in volta la scena principale.
Lucia, che deve scegliere tra due grandissimi amori, quello per Palermo e quello per Frank. Il travaglio di questa decisione è in un episodio piccolissimo, poche parole. Quando Frank le regala l’anello che la impegnerebbe a seguirlo negli Stati Uniti, all’inizio lei lo mette nella mano destra. Non è ancora un sì.
Louise è irlandese, si innamora e sposa Benedict. Anche il loro incontro è sottolineato da un episodio acuto e delicato: lei lavora in una biblioteca e lui chiede il libro Moby Dick. Trent’anni dopo Louise e sua figlia Nellie accolgono a braccia aperte Lucia nella famiglia e nella comunità. L’amore delle donne ignora le appartenenze.
La contessa di Roccamena, deus ex machina dell’intero romanzo, accompagna Frank alla scoperta del suo personale mistero e lo aiuta a trovare la soluzione. La signora Ciamaritano con la sua pelliccia di astracan gli affitta una stanza che sarà il nido d’amore del soldato, e che prima era del figlio morto in guerra.
Antonia, Costanza, Rosa, Emma, ciascuna ha un ruolo nel dipanarsi della storia e la capacità di sollecitare emozioni.
È evidente che Pasquale Morana ama le donne e le capisce.
In tutto il romanzo è diffusa una gattopardesca descrizione di Palermo, della Sicilia, della sicilianità che con la voce del principe di Salina dice <noi siamo dei>. Palermo è una città unica perché multiculturale, stratificata. E ancora Lucia cita Goethe <L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna idea nell’anima: qui si trova la chiave di tutto!>
Ma, come già detto, questo è un romanzo che consente letture stratificate e, andando a un livello più profondo, si trova che è lo stesso Luca, amico di Frank e fratello di Lucia, a rispondere. “E già … vi assolvete, ci assolvete. Amate Goethe perché, alla fine, considera Palermo come un paradiso terrestre. Questa è la terra della gioia estrema … e della sofferenza estrema … Come possiamo guardare al futuro se siamo ancorati al passato … tutto è stato corrotto, guastato… Ma è possibile una vita a queste condizioni?”
Lucia non accetta le parole del fratello e gli parla del gusto dei cedri. “Ma cos’è la vita senza l’amaro? Solo con l’amaro puoi apprezzare il dolce…”
Luca, per niente convinto, concluse con un eloquente cenno di fastidio “Forse è meglio che andiamo.”
Agata Bazzi