A cosa servono le lucciole?
C’è una foresta, lì dove batte in silenzio il cuore antico di un’Italia che inesorabilmente scompare, nella quale si può ancora ascoltare la saggezza degli antichi faggi e rimanere ammirati dall’orgogliosa alterigia di abeti imponenti che scrutano le valli di un rugoso Appennino.
I secoli si sono avvicendati, da quando Francesco attraversava i sentieri odorosi di muschio e di erbe mediche, raggiungendo la minuscola grotta che aveva scelto come propria dimora.
Incontrava lupi sul cammino e ad essi, come all’intero creato, Francesco dedicava una pausa del suo percorso, una parola di affetto, un gesto di affettuosa solidarietà.
Mio padre, che detestava il clero di una città assediata da cento arroganti campanili, da mille ordini conventuali e da un incommensurabile genía di ipocriti prelati – tra i quali tuttavia aveva scovato rare anime pie, alle quali dedicava una solidale e laica amicizia – amava nondimeno e senza contraddizioni il santo di Assisi, così prossimo al suo dialogare con i passeri del parco, che saltellando lo salutavano al mattino nel suo incedere ieratico verso il mercato della pescheria.
Nel mio peregrinare giovanile, all’interno della farmacia del millenario eremo di Camaldoli avevo rinvenuto una piccola scultura di Francesco intento ad ammansire il lupo, docile ai suoi piedi. Così mio padre tenne il minuscolo gruppo ligneo sul comodino: ove rimase, fino al giorno in cui egli lasciò questo mondo pregando – invano, ahimè – che al pari del santo le sue spoglie non conoscessero altro destino che la nuda terra.
Tra i silenzi di quella foresta amavo addentrarmi, in un tempo felice, mentre l’urto del giorno si spezzava tra le fronde, incapace di penetrare il sovrapporsi muto dei secoli tra le chiome dei fratelli alberi e il melodioso scorrere di sorella acqua nell’alveo accogliente dei torrenti.
Quando poi scendeva la sera a suggerire la necessità di una silente e fruttuosa riflessione, procedevo per ripidi sentieri, che talora abbandonavo lasciando che le suole affondassero nell’accogliente cedevolezza del sottobosco, nell’humus arrendevole al mio passo, mentre lontano e ostile sbiadiva il mondo ed era a me solidale ogni anima, nel comune destino del ciclo inesauribile dei viventi.
In questo cammino verso un’unità smarrita, accadeva talora di assistere al miracolo; e nel silenzio di una foresta amica, intessuto dai sospiri delle piante, dal brulichio silenzioso delle formiche e delle api, dal rimestare laborioso dei lombrichi, da tutte le minute storie di esistenze tanto distanti dalle urla scomposte di una umanità accecata da vani ed infruttuosi desideri, nella notte appariva, fantasticato e inatteso, il silenzioso splendore di minuscole stelle discese sulla terra, come anime smarrite che nel bosco ritrovavano la quiete e l’armonia di lontane, irraggiungibili costellazioni.
La lucciola, questa muta creatura che nella notte attira con minuto chiarore il compagno e discretamente spegne il suo bagliore quando egli l’ha infine raggiunta, come tutti gli esseri di questo pianeta soffre l’arroganza degli ultimi arrivati, la cui capacità distruttiva nei confronti della propria stessa dimora non teme confronti.
Così, abbiamo reso impossibile anche la loro vita, avvelenando i campi da cui traiamo cibo abbondante e artificiale; e abbiamo privato dell’ultima magia i nostri piccoli, che non conoscono lo stupore delle notti d’estate punteggiate in cielo da una via lattea ormai accecata e sulla terra da piccole minuscole fate luminose.
Non abbiamo perduto soltanto la vista delle piccole e innocue lucciole.
In verità, abbiamo barattato il silenzio con il fragore di mondi voraci del nostro spirito e l’incanto offerto nell’oscurità dalla vista incomparabile delle stelle con l’illusione accecante di una vita sintetica, di un destino sempre più arrogante e famelico.