Il gesto di Ettore che manca

Mi ritrovo spesso a dare consigli ai genitori su come gestire la prole ancora bambina. Lo faccio per
ragioni di lavoro, ma anche di amicizia. In entrambi i casi, lo faccio solo quando esplicitamente richiesto e
mai di mia sponte, per non ledere suscettibilità invisibili, per non stimolare riflessioni insopportabili, per
non assurgere a fastidioso maestro. In più, sono solito attendere prima di farlo, per vedere se chi mi
ascolta è pronto ad accogliere un punto di vista altro sulla loro vita in qualità di genitore.
Come avrete capito, il tema che tratterò oggi è il ruolo di “padre”.
Facciamo un piccolo passo indietro per chiarire i presupposti del titolo amaro di questo articolo.
Chi era Ettore nel poema omerico? Re di Troia, coraggioso, leale e generoso e – fatto inusuale all’epoca – amato dal suo popolo. Facendo un legittimo slittamento verso la cinematografia recente, faccia migliore non poteva esserci per impersonare questo eroe di quella del simpatico Eric Bana nel gradevole Troy, film che amai per una ragione semplice e in tema con le parole di oggi. Lo vidi al cinema col mio secondo figlio, il quale, al termine delle quasi tre ore di proiezione, mi disse di sentirsi diverso, più forte dentro, energico. Allora aveva solo dieci anni.
Ne conclusi che Omero, ancorché nella sua versione hollywoodiana, è ancora capace di generare
emozioni e, nel mio caso specifico, contribuire alla costruzione di un rapporto con la figliolanza fatto di
una sostanza solida come la condivisione, che tutt’ora perdura.
Ettore, egli pure, era padre, non solo guerriero. Lui però non combatteva per la gloria personale, ma si
immolò per difendere la propria città, il suo popolo amato da cui era ricambiato e, in definitiva, la sua
famiglia. Ettore entrò nella memoria collettiva alla stregua di Achille, ma per ragioni più profonde e alte:
l’amore per gli altri.
Quando la guerra contro gli Achei arriva ed Ettore è costretto ad andare sul campo di battaglia per le
ragioni di cui sopra, arriva il momento di salutare la moglie Andromaca, già disperata per quello che sarà
il destino certo del suo sposo: la morte. Lui pure lo sa, ma di tirarsi indietro nemmeno ne parla. È un
dovere che deve compiere. Prima di partire rivolge un saluto anche al figlio Astianatte il quale, non
appena lo vede bardato da armigero, con il suo bell’elmo sulla capa, si ritrae, quasi non lo riconosce, forse
ne ha addirittura timore. Allora Ettore, da padre comprensivo, che coglie le sfumature del figlio, si toglie
l’elmo e torna uomo semplice dinanzi a lui. Liberatosi dei simboli del guerriero, prende in braccio
Astianatte, lo bacia e lo innalza al cielo, mentre rivolge una preghiera a Zeus. Eccolo allora, il famoso
“gesto di Ettore” che ha un senso profondo da riscoprire oggi, quando il ruolo paterno viene evitato come la lebbra da una moltitudine di uomini diventati padri, solo sul piano biologico.
Partirei dal fatto che Ettore, per essere riconosciuto dal figlio, deve spogliarsi del suo ruolo di guerriero,
che ai nostri giorni può sostituirsi con altri ruoli consimili e meno violenti: avvocato, idraulico, architetto,
muratore, digital manager, ecc.
Prima domanda.
Quanti di noi padri hanno avuto il coraggio di presentarsi come semplice uomo dinanzi al proprio figlio?
E badate bene che un gesto simile non può essere certo fatto solo una volta nella vita, non basterebbe. Il
gesto compiuto da Ettore è ovviamente simbolico, immateriale e, in quanto tale, per avere effetto, richiede di essere riprodotto tutte le volte in cui si renda necessario per il figlio.
Tra le professioni non ho citato quella di psicologo, categoria a cui appartengo, sebbene in modo anomalo (perché non lo esercito nei canali abituali). Farlo in casa, esercitare una forma di psicologia spicciola con i propri figli, può essere deleterio allo stesso modo in cui può esserlo l’assenza totale di genitori o in ogni caso di figure-guida. Ciò infatti produrrebbe danni per eccesso di presenza, di razionalizzazione, di istruzioni, di perigliosa psicologizzazione degli eventi quotidiani. Mentre invece sarebbe opportuno lasciarsi accompagnare dal buon senso, da un certo istinto. Ho visto troppi genitori mettersi a discutere con estrema proprietà di linguaggio con il proprio figlio per spiegare le ragioni profonde del suo comportamento inadeguato. Tutto ottimo, se non fosse che l’infante aveva solo tre anni. Risultato? Il figlio ha sviluppato una proprietà di linguaggio eccezionale per l’età, ma non ha capito ancora dove ha sbagliato, quale comportamento deve correggere e soprattutto come deve farlo.
Ho visto anche altro, di entità simile, con effetti peggiori. Il padre incapace di rabbia autentica, il
professionista perso nei suoi pensieri legati alla carriera che, quando richiamato a scuola per ricevere
cattive notizie sull’andamento scolastico del proprio figlio, non riesce ad essere davvero addolorato, se
non in una forma blandamente teatrale. Una volta raccolta la notizia da parte dell’insegnante, si abbassa
verso il figlio e inizia una frase di rimprovero con la parola “tesoro”, per continuare poi con una sfilza di
piccoli cliché linguistici che non comunicano mai dolore autentico, ma solo banalità senza valore
pedagogico.
Tornando al tema centrale, quel gesto di Ettore che in molti padri non riescono proprio a fare, mi
domando: qual è il suo senso profondo? Che valore può avere oggi? Che senso ha parlarne ancora? Facile
rispondere. Il gesto serve a mostrarsi ai propri figli per quello che si è veramente, mostrarsi autentici ai
loro occhi, con tutto il carico di sicurezze e insicurezze personali che ci portiamo dietro. Il gesto di Ettore
serve, in definitiva, per dare identità a se stessi e anche ai figli. Con quel gesto noi padri diciamo ai nostri
figli questo: “Ecco, io sono tuo padre e me ne assumo la responsabilità. Tu sei la mia prole e come tale ti
riconosco, nei tuoi bisogni materiali e psicologici”. Quel gesto serve quindi a prendere consapevolezza del
nostro ruolo di genitori per non finire con l’essere, come spesso succede, dimissionari, inerti, distratti,
omissivi, disinteressati.
Quando mi capita di parlare con i genitori di questo tema, cerco di declinarlo in forma concreta di
consiglio, di sprone all’azione, di cambiamento di atteggiamento verso quei figli che sembrano sfuggirgli
di mano. Sebbene si dolgano di questa fuga della loro discendenza, e soffrano per questo loro arroccarsi
su comportamenti disturbanti – quando va bene – o peggio pericolosi per loro stessi, non riescono a porre rimedio alla deriva, non trovano soluzioni efficaci, ma soprattutto non si interrogano a sufficienza su loro stessi.
Dopo aver speso del tempo per aiutare questi genitori, inizia il mio periodo di crisi. Comincio a pormi
delle domande, su me stesso, e quindi mi chiedo: a che titolo salgo su questo pulpito? Quale cumulo di conoscenze teoriche me ne dà il diritto? Quale bacino di esperienze me ne offre la legittimità? Per
rispondere a queste domande me ne vado a casa a scorrere i titoli dei libri su cui mi sono formato, per
rileggere passi sottolineati, concetti studiati in giovane età e di cui, a quanto pare, conservo ancora
memoria intatta. Cerco pure conferma della resistenza di quei concetti al cambiare dei tempi,
compulsando la saggistica psicologica contemporanea. E trovo, fortunatamente, conferma alle mie parole.
Non pago di queste conferme sul versante teorico-scientifico, mi rivolgo a mia moglie per farle la
domanda delle domande:
ma io, quando ero giovane, sono stato un buon genitore?
Lei mi dice che sì, lo ero e che continuo ad esserlo. Ma voglio una prova inconfutabile. Voglio vedere i
video di quando andavamo in giro con i nostri figli piccoli. Desidero vedere soprattutto quelli girati in
casa, mentre facevamo cose normali, conducendo la vita semplice di ogni giorno. In quei vecchi filmati
mi cerco, per capire se ero davvero un padre adeguato, autentico, affettuoso, attento, aperto, comprensivo,
ma anche in grado di offrirmi come guida quando i figli lo richiedevano. Mi spulcio i video e non ci trovo
nulla di tutto questo, perché quelli che cerco sono tutti elementi invisibili, nascosti tra le emozioni che ti
vibrano dentro e che da fuori non si percepiscono. Non rintraccio il mio modo di essere adeguato, se mai
ne avessi avuto uno; non trovo nemmeno l’autenticità di cui vorrei essere paladino, non trovo la mia
indole comprensiva. Ci trovo solo alcune sfumature di affetto nei miei gesti, ma solo un poco, perché
l’espressione dell’affetto – quando anche lui autentico – è allergico ai video; dinanzi a una videocamera si
ritrae, arrossisce, si nasconde, diventa sorriso imbarazzato e poi svanisce.
Allora, cosa ci trovo in questi filmati?
In tutti i video che abbiamo visto più volte, mia moglie ed io, rintraccio immancabilmente la capacità di
divertirci con loro. Non parlo del divertimento fatto di feste, torte e giochi d’artificio, e nemmeno di balli e
canti o risate grasse; parlo di fare cose semplici insieme, per il solo piacere di farle insieme. Alla fine,
dopo ripetute visioni, mi sono ricordato che a me, in fondo, è sempre piaciuto fare il padre. E mi sono
consolato dicendomi che è già, questa, una buona base per trovare la motivazione per tutto il resto di cui
sopra.

Mauro Li Vigni

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