Figlie dell’oro

LA RECENSIONE DI MARISA DI SIMONE AL ROMANZO D’ESORDIO DI FLAMINIA COLELLA

C’è un tempo della lentezza e della parola, un tempo soggettivo che abita la dimensione della ricerca e
della riflessione. Una dimensione della parola che diventa cura, nutrimento per l’anima, spinta verso l’alto
per riemergere da un abisso di sofferenza. Il romanzo “Figlie dell’oro”, della scrittrice Flaminia Colella, è un
atto d’amore verso la vita, da assaporare anche nelle più piccole cose. I pensieri di Delia, Gabriella, Serena
ed Emily Dickinson ci confidano un mondo interiore ricco di vitalità, di sentimenti ed emozioni, ci svelano
sofferenze e ci aprono a squarci di luce anche dentro il dolore.
Serena, voce narrante della storia, eredita dalla defunta nonna un libro di poesie di Emily Dickson e quelle
poesie le rivelano il senso di ciò che stava cercando “La poesia ha chiamato a raccolta la vita. La poesia di
una donna che vedeva l’oro nelle trame dell’arazzo del tempo ha chiamato a rapporto le vite. Le ha
moltiplicate”.
La vestale di Amherst non casualmente è presente con i suoi versi all’inizio di ogni capitolo del romanzo.
La sua poesia è capace di testimoniare le segrete corrispondenze tra cielo e terra, i suoi versi conservano
una potenza mistica.
Flaminia Colella rintraccia nei versi della poetessa statunitense la possibilità che da qualche parte
l’oro esista, possa risplendere e ci si possa aggrappare, una forma di salvezza possibile.
Serena si lascia trasportare dalla forza di quei versi, cerca di rubarne i significati profondi, prova a
confrontare le sue esperienze con quelle della nonna, della pittrice Gabriella e della poetessa Emily nella
speranza di ritrovare sé stessa contro il vuoto dell’esistere. Ed allora scrive lettere alla nonna che continua
a vivere nei suoi ricordi, donandole conforto. È un legame spirituale, un filo d’amore, un circolo virtuoso
che acquista senso nei versi di Emily Dickson. E quelle lettere sono terapeutiche, esorcizzano la paura di
vivere, la curano e la fanno riemergere dall’abisso del dolore provocato anche dalla perdita della nonna.
Serena crede a quel filo d’oro lasciato dagli angeli, dall’angelo nonna, e vi si aggrappa. Un filo che assume
diverse forme basta solo saperle riconoscere, apprezzare ed amare anche se la trama non ci è dato di
conoscerla.

Nel misterioso libro dell’universo l’esserci è un avvenimento dentro una fitta schiera di presagi, dove è
necessario cogliere le occasioni, non tralasciare nulla e penetrare nel cuore delle cose. E perché possa
succedere bisogna amare, non farsi raccontare il mondo ma viverlo, affrontarlo. Anche la letteratura
contribuisce alla vita, dice la scrittrice Colella, nel momento in cui incontra un altro essere vivente e
prodigiosamente concretizza uno scambio tra le anime. La letteratura stessa in fondo è la possibilità di
disegnare infiniti volti per tutto ciò che esiste. Nelle figlie dell’oro la poesia diventa scambio, legame tra
Serena e la nonna.
Il male di vivere di Serena non necessita della fuga, lo sanno bene Gabriella e Delia capaci di stare dove gli viene chiesto, la loro ribellione è tutta nel resistere, non fuggono. Il loro darsi, il loro immergersi è amore. Un sentimento che non ha uno spazio definito, come la narrazione del romanzo priva di centro. Non c’è una trama se non quella dell’anima che non ha risposte universali ma solo domande esistenziali: che cos’è l’oro nelle nostre vite? Lo abbiamo mai incontrato? Possiamo trattenerlo? Ma una cosa è certa per Emily Dickson che sia l’amore tutto ciò che esiste. È quanto noi sappiamo dell’amore.

Marisa Di Simone

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