Conferenze

Le conferenze sono un elemento essenziale dell’attività accademica, permettono non solo di presentare il proprio lavoro e di informarsi su quello degli altri, ma anche di produrre pubblicazioni, negli atti del convegno, e di incontrare colleghi da tutto il mondo.

Sono anche, per lo più, noiosissime. La ragione è semplice: la maggior parte dei colleghi (soprattutto i giovani) pensano che una presentazione dal vivo è l’equivalente di una lettura del lavoro scritto negli atti, più l’opportunità per qualche domanda. Questo è un grave sbaglio. L’essenza di una presentazione ad un convegno è una performance teatrale. E come in ogni performance, l’attenzione si conquista o si perde nei primi minuti. L’attenzione, però, per quanto importante, non basta: deve produrre emozioni positive, quali sorpresa o divertimento, e deve causare nel pubblico la sensazione di aver capito chiaramente qualcosa di importante, non di essere confusi da qualcosa di banale, come spesso succede.

Una volta mi trovai a New York, per la conferenza finale di una competizione nell’analisi del linguaggio naturale. Ogni gruppo, in giro per il mondo, aveva fatto analizzare lo stesso input dal suo sistema (sotto rigidi controlli) e i dieci migliori risultati erano stati invitati alla conferenza. Il relatore che parlò prima di me cominciò dicendo che non poteva rivelare la tecnica fondamentale usata, per questioni di possibile sfruttamento commerciale. Questo ovviamente mise tutti di malumore, sia perché, se si partecipa ad una competizione simile, si accetta di spiegare la tecnica, e sia perché i programmi di AI non sono chimica, non c’è la formula magica, ci sono invece decine di migliaia di linee di codice che contribuiscono al risultato, dunque è piuttosto paranoico pensare che una descrizione di qualche minuto possa mettere in pericolo il copyright. Tutti invece pensarono che si trattasse di un modo, molto ingenuo e controproducente, di darsi importanza.

Ovviamente non ci furono applausi. Il mio turno venne subito dopo, così presi al volo l’occasione, dicendo che gli avrei spiegato con piacere tutto quello che volevano sapere, e raccontando che, ogni volta che ci provavo coi miei assistenti, li perdevo lungo la strada, così speravo che magari con quella audience di specialisti mi sarebbe andata meglio. Così, sfruttai l’effetto di disponibilità, dopo quello di chiusura del mio predecessore sul palco, ma in più rivelai una difficoltà a comunicare coi miei collaboratori. Questo tipo di autoironia (self-effacing humour) è molto apprezzato nel mondo anglosassone, ci furono risate e applausi: a quel punto, anche se avessi saltato un passaggio importante, per tenerlo segreto, sarebbe stato ignorato in forza del buonumore acquisito. Questa è una tipica tecnica teatrale della stand-up comedy.

Tanto più utile quando si tratta di mostrare quanto si è riusciti a fare, il che dà sempre un po’ fastidio (secondo l’antico detto per il quale “chi si loda si imbroda”): avendo sminuito la mia capacità comunicativa, avevo già bilanciato quell’eventuale effetto negativo. Un altro problema nelle conferenze è la stanchezza: ascoltare relatore dopo relatore che parla di formule e programmi è molto soporifero, anche se l’argomento può essere interessante. In un’altra occasione, a Parigi, volevo spiegare il concetto di ‘controllo delle fonti’, cioè di quanto è importante, per un programma di AI, il saper identificare le proprie fonti e ordinarle per attendibilità, completezza, rilevanza etc.

Era quasi la fine della sessione mattutina e tutti erano sfiniti, si stavano preparando a lasciare la sala per andare a mangiare, molti erano già in piedi. Chiaramente, avevo pochi secondi a disposizione per attirare l’attenzione, prima che la sala si svuotasse. Così, senza alcuna introduzione, iniziai a raccontare questa storia: “Sono alla stazione, il mio treno sta per partire, sono in ritardo e non so qual è il binario.

Cosa faccio? Per prima cosa guardo il tabellone, cioè mi rivolgo alla sorgente di informazione preposta e aggiornata. Però tutti i tabelloni sono spenti, c’è un guasto. Non ho il tempo di andare all’ufficio informazioni. Allora cerco qualcuno in divisa ferroviaria, cioè una persona autorevole, ne trovo uno, chiedo ma mi dice “il binario 3, ma non sono sicuro, controlli”. E come controllo? Siamo quasi all’orario di partenza, se esito troppo perdo il treno, otterrei la certezza ma sarebbe inutile. Allora vedo che c’è una piccola folla che si affretta verso un binario, il 3 o il 4, stessa banchina, così punto sul fatto che, se corrono, il treno sta partendo, dunque dovrebbe essere il mio. Allora corro con loro, sto quasi per prendere il treno con gli altri, faccio un ultimo controllo chiedendo a tutti, coralmente, se il treno va dove devo andare io. Ma la mia destinazione è piccola, non la conoscono, però mi dicono la destinazione finale, è nella direzione giusta, allora salgo appena in tempo.

Non ho la sicurezza, ma se aspetto avrei la certezza di aver perso il treno, e molti indizi puntavano sul fatto che fosse quello giusto. Per mia fortuna lo era.

Terminai spiegando che questo tipo di incertezza è molto comune, che una macchina ragionante si sarebbe trovata in questo tipo di dilemmi, e che non scegliere sarebbe stato come scegliere di non partire. Da queste idee, poi, si sviluppò una area della AI nota come ‘source-control theory’ (teoria sul controllo delle fonti).

Secondo me, l’assenza di source-control nell’AI presente adesso, basata sulle reti neurali, è uno dei problemi maggiori, insieme a quello della mancanza di “consapevolezza”, ma questo è un argomento per una prossima volta.

Roberto Garigliano

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