Mai dire: “Sono uno psicologo”!

Qualche tempo fa sono entrato in un negozio di quelli molto chic, uno di quei posti dove mi trovo sempre a disagio, fuori posto, come un complemento d’arredo che cozza con il mobilio di casa. Ero lì e stavo facendo un acquisto per un regalo nel mio solito modo sbrigativo, apparentemente superficiale. La signora che si è presa la briga di assecondarmi pur di vendere, mi girava intorno come una trottola silenziosa e cortese, prodiga di sorrisi, fasciata in un abito che ne risaltava la figura. Mi ha anche fatto accomodare, per mostrarmi meglio l’oggetto che io avevo comunque già deciso di acquistare.

Quella sua danza faceva parte, ne sono certo, di un protocollo di comportamenti che le avevano inculcato e da cui non poteva staccarsi. Stava seguendo un copione collaudato e mai mi sarei permesso di infrangere il suo rituale, anche perché sospettavo ci fossero su di lei gli occhi del suo datore di lavoro, o di un suo emissario, pronto a giudicare la sua performance di venditrice. Insomma, trovandomi in un avamposto del neoliberismo con tutte le sue assurde regole di management e di marketing, non ho potuto fare altro che subire e ascoltare con pazienza tutto quello che aveva da dirmi su quel cavolo di oggetto inutile che stavo per acquistare.

Per rendere la conversazione più piacevole, almeno per me, mi misi a divagare, come faccio sempre quando mi sento intrappolato dalla stupidità. Mi misi a parlare di cose futili e tra queste ovviamente anche di me, suscitando curiosità nella donna, la quale, tra un sorriso a trentadue denti sbiancati e una frase gentile, mi chiese che professione facessi, sinceramente incuriosita dal mio linguaggio incline all’ironia e farcito di lemmi in uso tra gli psicologi che tutti ormai conoscono, o almeno credono di conoscere.

Quando mi chiedono però che professione svolgo non so bene cosa rispondere perché ancora non so chi io sia veramente sul piano professionale. Allora mi rifugio nella solita risposta che mi toglie dall’imbarazzo, ma mi mette decisamente nei guai: sono uno psicologo. Dopo averla proferita, la gente mi guarda con occhi diversi, più attenti, non solo curiosi ma famelici, come se dalla mia bocca potessero venire fuori chissà quali verità utili per comprendere la loro esistenza.

In genere lo sguardo che le persone mi lanciano è solo l’incipit di una conversazione che si sbilancia subito su questioni personali. Cominciano a tirare fuori problemi esistenziali piccoli e grandi dopo appena pochi minuti, anche quando le condizioni del contesto in cui ci si trova non lo permetterebbero. Non importa quindi, se siamo dal fruttivendolo per comprare la verdura cotta per la cena o in un negozio affollato, le persone trovano sempre il coraggio per accennarmi qualcosa di sé, complice probabilmente la mia tendenza naturale all’ascolto, postura compresa.

In pratica, senza volerlo, li incoraggio a parlare. Ma la mia è semplice cortesia, non cerco clienti, e non ho certo nessuna curiosità in merito alla loro vita privata, le cui paure, i cui conflitti e le cui delusioni mi addolorano umanamente, ma mi ricordano molto da vicino anche le mie, anche quelle non del tutto risolte. I miei interlocutori devono quindi rassegnarsi ben presto ad accettare l’idea che sui loro conflitti interiori nessuna azione riparatrice potrò mai generare – se mai ne fossi all’altezza – nell’angusto spazio/tempo di una conversazione di strada con me.

Tutta questa voglia di rendere partecipe delle proprie angosce me in quanto rappresentante della categoria degli psicologi va letta però in un solo modo, che nulla ha a che fare con la stima nei miei confronti. Io qui non c’entro proprio niente: io sono per loro, in quel momento, un ologramma, una presenza immateriale, disincarnata, usata come ricettacolo transitorio della loro voglia di parlare, di sfogarsi, magari pure di riprendere il filo del discorso avviato con i loro psicoterapeuti.

Io credo anche che al fondo di questa voglia di parlare dei propri turbamenti psichici con chi dinanzi a loro si dice psicologo, ci sia in alcuni casi una richiesta di aiuto, ma anche una sorprendente disponibilità ad aprirsi per blandire, temporaneamente, la sofferenza che i pensieri negativi producono in loro. Personalmente, mentre ascolto con pazienza, mi vivo in silenzio un sentimento vischioso dal duplice aspetto. Da un lato un certo grado di impotenza dovuta al fatto che io nulla posso nel qui ed ora, dall’altro una ragionevole quota di imbarazzo per i tradimenti subiti, gli abbandoni dolorosi, le perdite luttuose, gli amori sconfitti, le paure invalidanti, i desideri repressi di cui mi mettono a parte, così, su due piedi.

Ad onor del vero ho notato comunque che le persone hanno sviluppato una competenza linguistica notevole, incorporando nei loro discorsi un certo numero di vocaboli tecnici di ordine psicologico assorbiti grazie alle tante letture fatte in rete. Ho notato, solo per fare un esempio, che le persone non danno più molta importanza al racconto dei sogni, a meno che non abbiano voglia di giocarsi qualche numero al lotto, avendo compreso o interiorizzato quindi che c’è uno iato profondo che divide ormai da lungo tempo la psicoanalisi dalle psicoterapie.

Quando questi incontri, che costellano in modo casuale la vita di strada degli psicologi, si fanno più lunghi del sopportabile, spendere qualche frase di circostanza, per significargli che capisco, patisco e mi addoloro per loro, spesso è sufficiente per mettere fine all’incontro. Non sempre però. A volte devo passare al piano B, che prevede due fasi: la prima serve a fare una differenziazione tra i diversi tipi di psicologi che esistono in natura. Innanzitutto quelli clinici, soggetti mitologici che nella mente delle persone solitamente si posizionano primi in classifica; sono quelli che ricevono i pazienti in studio per cercare percorsi di guarigione, per intenderci. Poi vengono tutti gli altri, quelli del lavoro, quelli dello sport, quelli sociali, quelli scolastici e la forma più rara tra tutte, gli psicologi ricercatori.

La seconda fase di questo piano B consiste invece nel deludere il mio interlocutore, informandolo della mia non appartenenza alla stirpe degli psicologi clinici. Ciò significa, in soldoni, che io studio non ne ho e pazienti nemmeno. Ma anche questa strategia alternativa non sempre funziona, e chi mi sta dinanzi rimane a fissarmi con lo sguardo tipico di chi è convinto che quello che ho appena detto è solo un gioco, o peggio, un modo per prenderli in giro e che non può essere vero che io non sia quel tipo di psicologo che loro credono che io sia.

In questi casi di chiara resistenza alle evidenze, tiro fuori il nome di una mia amica e stimatissima collega che invece psicologa clinica lo è davvero. Giro loro il suo numero di telefono e li invito a contattarla, perché so che lei sarà in grado di prendersi carico delle loro ansie meglio di chiunque altro.

Ma dinanzi a questo dispiegarsi cospicuo di richieste d’aiuto, a questa voglia di parlare delle proprie angustie, le domande che mi faccio sono le seguenti. Che cosa è cambiato negli ultimi decenni nelle persone, tanto da spingerle a rivolgersi allo psicologo con maggiore frequenza rispetto al passato? Lo considerano più accettabile socialmente? Sono, forse, aumentate le patologie? Oppure si sono allargate le maglie dei criteri diagnostici dei manuali dei disturbi mentali, così da accogliere individui che un tempo vi sfuggivano?

Qui non c’è il tempo di rispondere nel dettaglio a tutti questi quesiti sui quali, peraltro, sto ancora cercando delle risposte io stesso. Mi sento di dire però che ognuna di queste domande contiene già una parte della risposta. C’è un po’ di tutto questo: diagnosi più accurate e precoci, criteri diagnostici più ampi, maggiore rispettabilità della professione, ma soprattutto è scomparsa la vergogna.

Nelle famiglie, in un recente passato, avere un componente in cura psicologica era quasi motivo di disonore, qualcosa da tenere nascosto, qualcosa appunto di cui vergognarsi perché forse testimonianza tangibile di una tara familiare. È sempre stato più facile dire che si è diabetici piuttosto che nevrotici, termine questo che andrebbe comunque chiarito meglio perché ricco di sfumature in continuo aggiornamento. Oggi però le cose sono cambiate ed è facile imbattersi in persone che ti informano sulla loro frequentazione pluriennale di uno psicologo per risolvere alcuni problemi personali.

I dati statistici raccolti dall’ordine degli psicologi confermano tutto questo. Si stima infatti che in Italia un adulto su tre e due giovani su cinque vivano situazioni di disagio psichico. Al contempo, però, sono ben cinque i milioni di italiani che non riescono ad accedere all’aiuto psicologico perché non possono pagare di tasca propria le sedute. In generale, negli ultimi anni si è registrato un aumento di richieste di psicoterapia, in sede privata, del 62% – una cifra enorme. Alla fine quello che tutti notano è una pericolosa mancanza di psicologi pubblici, con la conseguenza di correre il rischio di sottovalutare i bisogni di cura effettivamente espressi dalla popolazione. Mancano psicologi nelle strutture pubbliche, ma i laureati in psicologia crescono di anno in anno.

Come spiegare tale paradosso? Se non fossi nato e cresciuto in Italia, non sarei mai stato in grado di comprendere questa ennesima contraddizione. Un recente rapporto Censis sulla disoccupazione nel nostro Paese ci dice che mancano i lavoratori e non il lavoro, ma in questo caso specifico abbiamo sia il lavoro ossia la domanda, rappresentato dalle persone che richiedono aiuto, sia i lavoratori, ovvero lo stuolo di abilitati alla professione di psicologo clinico che sul piano privato non trovano sbocco ma che al servizio pubblico farebbero assai comodo.

Volevo chiudere il cerchio con un’ultima riflessione, ancora una volta in merito alle motivazioni che spingono le persone a contattare uno o una terapeuta. A quanto pare bisogna prendere in considerazione anche un’altra possibilità, ovvero la solitudine diffusa che si registra ai nostri tempi, solitudine derivante, in gran parte, dall’insoddisfazione provata dalle persone nei rapporti interpersonali, spesso incapaci di basarsi su autenticità, sincerità e benevolenza. Sono in tanti ad aver vissuto sulla propria pelle le ricadute negative di relazioni, siano esse amicali o sentimentali, inquinate da atteggiamenti giudicanti, o peggio censori, da parte del partner.

Sebbene possa sembrare anomalo, queste stesse persone finiscono con il sentirsi bene all’interno di un setting psicoterapeutico proprio perché lì dentro riescono ad ottenere quell’ascolto che altrove sembra ormai difficile trovare. Un ascolto sereno, non giudicante, accogliente. Lo studio dello psicologo diventa quindi, paradossalmente, un luogo dove poter sperimentare per la prima volta rapporti interpersonali significativi, profondi perché a bassa intensità conflittuale.

Siamo tutti d’accordo, credo, sul fatto che nulla potrà mai sostituire un rapporto di amicizia o d’amore autentico tra due persone (a patto che sia sereno), tanto meno una serie di colloqui con lo psicologo. Però se siamo qui a porre anche questa anomalia come un evento possibile, dobbiamo interrogarci sui motivi dell’assenza di fiducia e di rispetto nelle relazioni, e magari cercare in queste riflessioni la nostra quota di responsabilità.

Mauro Li Vigni

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