Ciatu Meu
Tomasino Fragapane era nato allo scoppio di una bomba.
Il 5 giugno 1943 gli alleati avevano messo in atto l’operazione Corkscrew, decisa alla Conferenza di Casablanca come atto propedeutico per l’invasione della Sicilia, che doveva diventare la piattaforma logistica per la liberazione dell’Italia. La prima isola ad essere occupata fu Pantelleria, poi venne l’ora di Lampedusa.
Alle 5 del mattino, quando già le prime doglie avevano colpito sua mamma Domenica, un’ogiva da 227 chili sganciata dai “Pippo” partiti dalle coste tunisine era esplosa vicino all’aeroporto, a poche centinaia di metri dalla grotta dove si erano rifugiati la sera prima, quando era stato diramato il coprifuoco in previsione di un attacco aereo. Per lo scanto, lei aveva lanciato un urlo e dato un ennesimo colpo di reni, mentre la cugina Carmela armeggiava con le pezze bollite nella pentola sul fuoco. Fu così che Tomasino vide la luce dentro ad un boato mentre sua madre, stringendo tra i denti una spugna imbevuta di vino, gridava “Ciatu meu!”, quel soprannome gli rimase incollato addosso per tutta la vita.
Pippo era il nome che i siciliani avevano dato ai bombardieri alleati del 47th Bomb Group e del 414th Night Fighter Squadron, che per primi avevano sperimentato le incursioni notturne, quando la gente era nelle case ed il silenzio avvolgeva i miseri paesi dell’isola. “Picciriddi spegnete la luce, sennò arriva Pippo” ordinavano le mamme ai propri figli, inventando filastrocche e canzoncine per farli stare buoni. Ma quando le esplosioni si avvicinavano ai centri abitati, squarciando il buio con lampi di fuoco, il terrore aggrediva piccoli e grandi e le litanie prendevano il posto delle favole.
Otto giorni dopo la sua nascita, gli alleati sbarcarono su Lampedusa e questo Tomasino lo avrebbe raccontato con orgoglio lungo tutta la sua lunga vita, rivendicando di essere arrivato sull’isola insieme alla libertà.
Suo padre gli aveva narrato, come se fosse una fiaba, di quando erano sbarcati dai mezzi anfibi al porto della Guitgia quei ragazzoni abbronzati che avevano sfilato per le vie del paese donando cioccolata, gallette e sigarette buone. Sua mamma lo aveva innalzato come un trofeo al loro passaggio, tutto fasciato di bianco con una cuffietta ricamata presa dal corredo buono, mentre un gigante dalla pelle scura si era avvicinato per dare una carezza e sganciare dieci amlire, una banconota nuova di zecca che non avevano mai visto e che era stata incorniciata ed appesa alla parete nella stanza da pranzo, dove si trovava ancora dopo oltre settantanni.
Più di quattromila soldati italiani, tra cui diversi ragazzini di leva arruolati all’ultim’ora per difendere quel lembo di patria vicino alle coste africane, furono in pochi giorni trasferiti nei campi di reclusione in Tunisia ed Egitto, dove ebbero un trattamento migliore di quello che le misere furerie del regime avevano consentito negli ultimi mesi, da quando grazie ad Ultra tutte le comunicazioni tra le navi dell’Asse ed il comando di Taranto venivano decriptate, con il risultato che ogni due carichi di provviste uno finiva in bocca ai pesci insieme agli equipaggi delle imbarcazioni che li trasportavano.
Con la partenza dei militari l’isola si spopolò, come sarebbe poi accaduto nel dopo guerra, quando alla fine dell’estate i turisti abbandonavano le azzurre spiagge lampedusane per tornarsene al nord.
Gli Alleati lasciarono un piccolo presidio militare, avendo ormai sicurezza che il Mediterraneo meridionale fosse sotto il loro pieno controllo e nessuno avrebbe potuto insidiare quei piccoli avamposti. Ma già pochi anni dopo tutti i soldati lasciati di presidio vennero richiamati e Lampedusa tornò ad essere quella che era stata per secoli, una landa desertica in mezzo al mare africano.
Ciatu meu in quel luogo arido ed incolto ci passò tutta la sua breve infanzia, fatta di giochi ed esplorazioni, fin quando non dovette cominciare a lavorare, ad appena nove anni, per aiutare la famiglia a mettere il pane a tavola.
Fino a quel momento, però, le spiagge sabbiose a meridione, la vasta steppa al centro dell’isola e le alte costiere verso nord diventarono il suo parco divertimenti. Insieme ai pochi coetanei rimasti, trascorreva le sue giornate a caccia di lucertole e di granchi, a pesca di aiole e saraghetti, raccogliendo le spugne o nascondendosi nelle grotte e negli anfratti, fino a quando faceva buio e gli adulti andavano a cercarli. La scuola, infatti, non c’era ancora e toccava al parroco insegnare a quei bambini a leggere e scrivere, non potendolo fare i genitori che erano quasi tutti analfabeti.
Suo padre, Calogero Fragapane, a dire il vero la firma la sapeva fare e pure i conti, che scriveva dopo aver scrocchiato le dita ad una ad una per fare le somme o le sottrazioni. Ma nulla più di questo, anche perché di giornali non ne arrivavano e i libri erano solo quelli conservati nella sagrestia del santuario della Madonna di Porto Salvo, unico luogo di preghiera rimasto intatto durante i bombardamenti.
Ciatu meu, a modo suo, era credente. Lui ci si trovava proprio bene il quella grotta vicino Cala Madonna, che prima era stata moschea e poi chiesa, diventando alla fine luogo di preghiera comune per cristiani e mussulmani. Lui credeva che Dio fosse uno solo, non poteva che essere così, se no come si spiegava il mare?
A volte, nei momenti di sconforto o di paura, durante la sua vita a quel Creatore ci si era rivolto chiamandolo per nome, che fosse Allah o Signore Iddio, recitando le preghiere che aveva imparato dalla nonna quando era bambino. E poi, la Madonna era una sola, la madre di Cristo era venerata sia dalle donne del paese che recitavano ogni pomeriggio il loro rosario che dai pescatori tunisini, che quando venivano sull’isola per i loro commerci non mancavano mai di renderle omaggio nella grotta.
Che Dio esistesse davvero Tomasino lo aveva sperimentato in tante occasioni nella sua vita, ogni volta che era stato salvato quando stava per perdersi definitivamente. Ad esempio, quella volta che il pozzo che stava scavando a dieci anni, scendendo a testa in giù con i piedi legati ad una corda fissata al collo del mulo, era crollato seppellendolo di macerie. O quando si era trovato al largo di Lampione ed era scoppiata una tempesta improvvisa, che aveva portato la sua barca a sfracellarsi sugli scogli. Lui non si era mai perso d’animo, in nessuna delle tragedie che avevano attraversato il suo percorso terreno, ed aveva tenuto salda la rotta confidando senza incertezze in quel porto sicuro dove un giorno sarebbe approdato.
Anzi, quando aveva perso la sua prima moglie giovanissima, per un male incurabile che l’aveva colpita dopo la nascita del primo figlio, si era detto convinto che il Creatore l’aveva mandata ad attenderlo in quel paradiso che lui credeva fosse come quello raccontatogli dal suo amico Ibrahim, pieno di donne che lo avrebbero reso felice accudendolo come un pascià. Fu per questo che non aspettò neppure i canonici sei mesi di lutto ma già alla messa del trigesimo aveva fatto la proposta di matrimonio alla cognata, di due anni più piccola della sorella. E quella aveva subito accettato, perché si sapeva che Tomasino era un uomo buono, grande lavoratore, proprietario di barca e di un piccolo podere. Soprattutto si diceva che non picchiasse le femmine dopo aver bevuto, abitudine diffusa tra gli uomini dell’isola, ma che anzi sapesse renderle molto felici.
Questa sua fama di tombeur de femmes lo avrebbe seguito per tutta la vita, anche se Tomasino non aveva mai tradito le proprie mogli. Da giovanissimo aveva avuto qualche avventura, ma una volta messo l’anello al dito aveva posto un catenaccio ai pantaloni ed appeso l’arnese al chiodo, come dicevano gli amici per canzonarlo nelle sere d’inverno, quando non si poteva uscire in mare e si passava il tempo nelle bettole del porto.
Bellissimo in effetti non era, ma aveva quel non so ché di maschile che faceva riscaldare le donne. Soprattutto le turiste, sia italiane che straniere, quando l’isola aveva cominciato a diventare una destinazione per le vacanze estive. Spesso lo corteggiavano spudoratamente, facendo apprezzamenti sui suoi muscoli così ben delineati in un corpo mingherlino; ma lui restava impassibile a quelle avances, perché suo padre gli aveva insegnato ad amare una sola compagna per volta.
Tanto di sesso non si era mai privato, perché aveva scelto tutte e quattro le mogli che lo affiancarono nella sua lunga vita del modello perfetto, sante in chiesa e scatenate a letto. Non a caso ebbe ben otto figli; tutti dalle prime tre perché la quarta, che sposò quando aveva quasi sessant’anni, purtroppo non ne poteva avere più. Ma questo non le impediva di dare soddisfazione al muscolo cui Tomasino non aveva mai lesinato allenamento quotidiano.
Giunto quasi ad ottant’anni, vedovo per la quarta volta ormai da cinque, Ciatu meu non smise mai di amare le donne. Solo cambiò modo di amarle, trasformando la passione erotica in galanteria. Era famoso a Lampedusa per quel suo modo di fare cortese ed affettuoso, che faceva sentire una regina anche la più misera delle lavandaie del paese. Le proprietarie delle ville di Cala Francese facevano a gara per accaparrarselo come giardiniere, non solo perché era un mago nel mantenere rigogliosi i prati in quella terra secca ed assolata, ma soprattutto per come le faceva rifiorire, irrigandole di complimenti che aridi mariti avevano fatto loro dimenticare. Le trattava con una riverenza mista a seduzione che le eccitava, senza però mai cadere nel cattivo gusto.
Questo modo di fare, come detto, Tomasino non lo riservava solo alle ricche milanesi o palermitane che trascorrevano le loro estati sull’isola. Lui trattava così ogni essere di genere femminile. Dalle bambine che incontrava passando davanti all’istituto scolastico, di cui curava il verde, alle anziane sedute davanti alle porte nelle calde serate estive. Si potrebbe dire che riservasse quel trattamento anche alle cagne randagie che scorrazzavano lungo le strade, a cui non mancava di dare una carezza o un tozzo di pane duro.
Ma quanto a fedeltà, questa non mancò mai. Ciatu meu rispettò sempre quanto gli aveva detto don Ilario, il parroco, in occasione del suo primo matrimonio: “Tomasino, sei stato un pescatore, ma questa donna per te è come una barca. Nessuno può condurre più di una barca per volta, se non vuole naufragare. Ricordati di queste mie parole, nelle tempeste della tentazione che il Diavolo di porrà davanti”.
E lui quelle tempeste le aveva sempre attraversate attaccandosi all’albero maestro di quelle barche mentre sirene ammalianti cercavano di invitarlo a tuffarsi tra schiumeggianti onde che avevano curve sinuose come quelle dei calendarietti del barbiere.
Della stessa moneta era stato ricambiato da tutte e quattro, che gli furono servizievoli come gheishe e riconoscenti come le devote del Porto Salvo.
Nel sangue di Tomasino scorreva un mix di tutte le genie dei popoli che avevano abitato Lampedusa. I nonni paterni erano eredi dei primi coloni che, a partire da metà Ottocento, i Borboni avevano trasferito da Pantelleria, Ustica e dalla Sicilia. Furono scelti agricoltori, perché secondo i piani l’isola sarebbe dovuta diventare una colonia agricola e a ciascuno furono assegnati lotti di terreno da coltivare. Ciascun colono si trasferì con la propria famiglia in dammusi costruiti davanti al porto della Guitgia, Per la costruzione del centro abitato vennero mandati sull’isola architetti, capimastri e più di 500 operai edili, falegnami, tagliapietre, fornaciai, carrettieri muniti di carri e cavalli. Era il 1844.
Ma ben presto i coloni si resero conto dell’impossibilità di far fruttare quei terreni aridi e duri. Nessuna pianta attecchiva e solo erbe selvatiche e fichi d’india resistevano al caldo estivo. Per questo, pur di sopravvivere, gli agricoltori pensarono di coltivare il mare invece che la terra.
Nel 1887 fu scoperto vicino alle coste dell’isola un grande banco di spugne di mare e i lampedusani divennero così in buona parte “spugnari” coltivando campi di spungicoltura. Si immergevano, senza uso di bombole o di maschere, a quasi quaranta metri di profondità in mare aperto, infilzando lo scheletro corneo di quegli animali marini con una fiocina a quattro denti legata ad una lunga asta. Questa attività fiorente, quando ancora non esistevano i prodotti industriali, attirò a Lampedusa pescatori da tutto il Mediterraneo. Ai primi del Novecento la comunità isolana era multietnica e multireligiosa. Vi erano i pescatori tunisini e turchi, con le loro feluche a vela latina, e quelli greco albanesi, con i primi caicchi a motore.
Nel giro di pochi anni le condizioni economiche dei lampedusani migliorarono notevolmente. Fino a quando non si diffuse la produzione di spugne sintetiche, per contrastare l’eccesso di sfruttamento dei banchi naturali che ne aveva determinato quasi la scomparsa. Le fabbriche inglesi cominciarono a trattare con alcool ed acetato di metile la gomma elastica vulcanizzata, realizzando una fibra fortemente elastica e porosissime, molto simile alla spugna naturale
Fu allora che i lampedusani si trasformarono in pescatori.
E pescatori, di origine greco albanese, erano i nonni materni di Tomasino. Il loro cognome derivava dall’arbëreshë Kyriakos che significa “devoto al Signore”. Sua mamma, Domenica Chiriaco detta Mimì, aveva in pratica il nome sinonimo del cognome.
Il primo ad arrivare a Lampedusa era stato il suo bisnonno Christodoulos Kyriakos, che tutti chiamarono da subito Cristoduro Chiriàco. Nel 1888 si era trasferito, con la moglie Xenia, dalla nativa Ios dove aveva un podere ad Armòlia, nel sud dell’isola, piantumato a lentisco da cui estraeva la masticha, la resina gommosa con grandi proprietà antiinfiammatorie conosciuta fin dall’antichità. La sua famiglia faceva parte della comunità greco ortodossa dell’isola che nel 1822 era stata brutalmente massacrata dai turchi, a seguito di una ribellione dopo secoli di dominazione ottomana. Morirono più di trentamila persone, tra cui quasi tutti i suoi parenti. Cristoduro e Xenia ebbero sei figli, tra i quali Kyros, il nonno di Tomasino, che tutti sull’isola chiamavano Curò.
La famiglia della nonna materna Bitila Raptis, invece, veniva da Saseno, l’isola greca di fronte a Valona che venne conquistata dall’Impero Ottomano nel 1864 per cui, temendo ritorsioni sulla popolazione ortodossa, fuggirono con la propria barca in Puglia e da lì ottennero un visto per Lampedusa dove sperava di avviare un’attività di pesca.
Il matrimonio tra Curò e Bitila fu combinato dalle loro famiglie, come allora si usava, per restare all’interno della comunità di origine greco ortodossa, anche se ormai erano tutti diventati lampedusani e frequentavano il Santuario di Cala Madonna insieme a cattolici e mussulmani.
La loro secondogenita, Mimì, era un’abile ricamatrice come la mamma oltre che essere una delle più belle ragazze dell’isola. Fu per questo che il papà di Tomasino prese ad andare abitualmente a messa al Santuario, lui che a stento era stato battezzato ma non aveva ancora fatto la prima comunione. La fissava tutte le domeniche durante la messa ed alla fine la aspettava nel piccolo giardino antistante, mentre la mamma la trascinava via a forza.
Complice la zia Anastasia, che aveva detto di averne bisogno per rammendare un lenzuolo del corredo, era riuscita ad incontrarlo di nascosto. E lui l’aveva portata a Cala Pisana, per guardare il tramonto a Capo Ponente, il punto più lontano dal paese. Tanto che avevano fatto tardi a rientrare e la zia non poté celare l’accaduto alla sorella Bitilia. Per cui la domenica successiva Calogero Fragapane si presentò a casa Chiriàco con un vassoio di buccellati ed una bottiglia di Marsala, per celebrare il fidanzamento.
Neanche era trascorso un anno che si sposarono, perché non si poteva perdere tempo in quel periodo bellico in cui ogni giorno era una lotteria. Nove mesi dopo, nacque Tomasino.
Pur essendo amante della compagnia, Ciatu meu non rinunciò mai a quei momenti di solitudine in cui si sedeva davanti al mare per contemplare la bellezza del Creato. A volte andava a vedere l’alba a Cala Pisana, facendo le svolte ai calzoni per mettere i piedi in acqua mentre il sole spuntava dal mare. Oppure, andava ad osservare la danza dei delfini dalla Tabaccara, sedendosi sul costone roccioso per guardare lo spettacolo dei loro salti davanti all’isola dei conigli, dove andavano a caccia dei banchi di pesce che affollavano quel tratto di mare.
In quei minuti lo prendeva quasi un’estasi mistica, i sensi si inebriavano di odori misti di mare ed erbe selvatiche, mentre una forte energia lo pervadeva ricaricandolo.
Di ritorno da quelle esperienze spirituali sentiva il bisogno di reimmergersi subito nella corporeità, facendo l’amore in maniera selvaggia, quasi bestiale. Questo le sue mogli avevano imparato presto a capirlo, tant’è che non si lamentavano mai di quei suoi allontanamenti, confidando nella ricompensa finale.
Una volta, addirittura, con la sua seconda moglie, aveva fatto l’amore per ben sette volte di seguito, fino a che lei non fuggì a casa della madre ancora nuda, dolorante e malconcia, mentre lui bussava sul portone gridando in piena notte.
Finiti gli effetti di quella tranche mistica, Tomasino riprendeva la sua abituale routine da muratore-giardiniere tuttofare.
Quando morì, ad oltre ottantanni, Tomasino era sopravvissuto a tutte le sue mogli ed anche ad un paio di figli. Era rispettato da tutti sull’isola e il corteo di barche che accompagnò il suo feretro fino a Cala Madonna fu il più numeroso che si ricordasse da sempre.
Ancora oggi, dopo tanti anni, Tomasino da Lampedusa viene ricordato sull’isola più del grande scrittore autore de Il Gattopardo. E qualcuno, scrutando il mare dal molo, dice che al tramonto si può intravedere l’anima di Tomasino che saltella sull’acqua insieme ai delfini.
Fabrizio Escheri