CUORE

FRANCESCO PETRARCA (1304-1374)

Canzoniere, 1

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond’io nudriva ’l core

in sul mio primo giovenile errore

quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono

fra le vane speranze e ’l van dolore,

ove sia chi per prova intenda amore,

spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto

favola fui gran tempo, onde sovente

di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,

e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente

che quanto piace al mondo è breve sogno

  É trascorso soltanto qualche decennio, ma tra Dante e Petrarca passa un’epoca. L’ordine delle cose, celebrato da Beatrice nel I canto del Paradiso, cede il posto al caos dell’io che desidera, sbaglia, si pente e capisce. Una ritmica interiore moderna, quella propostaci dal mondo interiore di Petrarca, che sfida i lettori su un terreno vicino e distante nello stesso tempo, il terreno del rapporto tra eros ed ethos, tra desiderio e morale.

Siamo davanti alla prima poesia del Canzoniere di Petrarca, una raccolta di 366 componimenti dedicati in larga misura al suo amore non corrisposto per una Laura. Si tratta di un sonetto che ha il sapore dell’introduzione e della conclusione nello stesso tempo. Nel testo, infatti, il poeta si rivolge ai suoi lettori come a coloro che entrano in contatto con la sua vicenda amorosa e che sono invitati alla compassione e al perdono. Il poeta è stato innamorato per lungo tempo. Ma ora ha capito che si è trattato di un errore, che gli ha procurato lo scherno della gente e la vergogna. Di tutto questo egli è pentito, e il pentimento gli fa comprendere l’inconsistenza dei piaceri della vita.

La parola cuore è contenuta nel Canzoniere duecentosettantatrè volte. La prima volta in cui compare è proprio in questo sonetto proemiale, unita al verbo “nudriva” (nutriva) e alla parola “sospiri”. Ma allarghiamo il campo. Il poeta rievoca il tempo in cui era giovane, o meglio il tempo in cui viveva una vita “sbagliata” da giovane, quando egli era altra cosa da quel che è nel momento in cui scrive, cioè adulto e maturo. In quell’epoca egli nutriva il proprio cuore di sospiri, un termine chiaramente riconducibile alla passione amorosa, se si pensa anche ai “dolci sospiri” del canto V dell’Inferno, che caratterizzano l’amore lussurioso di Paolo e Francesca di cui si è già trattato.

Il verbo nutrire peraltro era già stato utilizzato da Giacomo Da Lentini, esponente della scuola siciliana. In questa stessa rubrica avevamo visto all’opera Amore come desìo indotto dagli occhi e, appunto, nutrito dal cuore. Il nutrimento chiama in causa la fame, ovvero un bisogno primordiale. Quando si è giovani si ha fame di emozioni amorose, che probabilmente il nostro tempo non chiamerebbe più “sospiri”, termine forse caduto in disuso. Eppure anche sulla scena del nostro tempo rimane il cuore, ricettacolo delle emozioni forti. Ma è importante prendere in considerazione anche la parte restante del testo, quando Petrarca precisa che si sta parlando di Amore e che quell’antico modo di amare, all’atto in cui scrive, non è più accettabile. I lettori abbiano compassione di lui se la sua scrittura farà risentire “il suono di quei sospiri”.

Oggi infatti il poeta è consapevole del suo giovanile “vaneggiare”, che gli ha procurato perdita di reputazione e vergogna. Insomma, come il Dante maturo dinanzi ai lussuriosi Paolo e Francesca, anche in Petrarca l’amore che sospira è fonte di perdizione. Il Canzoniere è la storia di un cuore che si è smarrito, ma al contrario del cuore dantesco non si è più ritrovato. La Laura petrarchesca, anch’ella morta come Beatrice, checché sperasse Petrarca, non sarà mai per lui via verso la salvezza e la pace interiore. Dalla revisione di vita i due grandi approdano ad esiti differenti.

Infatti il cuore di Petrarca, a giudicare da tutta la sua opera, non si redime, anche se l’ultimo verso del sonetto sembrerebbe indicare un approdo positivo dell’intelligenza del poeta, che adesso conosce con chiarezza che “quanto piace al mondo è breve sogno”. Nutrire il cuore di sospiri, per la retrospettiva petrarchesca,  significava coltivare illusioni di felicità che non hanno consistenza. Dire che ciò che piace al mondo è “breve sogno” vuol dire reputare effimere tutte le aspirazioni mondane di cui si nutre l’uomo. È un’affermazione forte, che sembra provenire dall’ascetismo monastico e che può apparire lontana anni luce dalla sensibilità moderna.

Ma è davvero lontana? Davvero il nostro tempo non istituisce differenza tra il cuore giovane che nutre il cuore di sospiri ed il cuore adulto capace di rendersi conto di quanto siano vani i piaceri mondani? Sono trascorsi settecento anni da quando Petrarca aveva vent’anni e riempiva il suo cuore di sospiri. A un sessantenne del nostro tempo occorrerebbe chiedere di quali “sospiri” – se ancora così si può parlare – egli nutrisse il suo cuore da giovane, e se sia ancora convinto della durevolezza e della consistenza delle inquietudini giovanili. O se addirittura, clamorosamente, non le abbia mantenute tali e quali nel tempo.

Maurizio Muraglia

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