Lo sguardo di Emanuele Navarro Della Miraglia e di narratori e artisti, tra Ottocento e Novecento, su Palermo

Palermo, città meravigliosa pur con le sue ataviche contraddizioni, culla di diverse civiltà, è stata meta, nei secoli, di artisti, scrittori, letterati anche stranieri che ne hanno ammirato in una caleidoscopica ricostruzione le bellezze paesaggistiche e architettonico –urbanistiche ma anche botaniche. Tra i letterati che hanno descritto minuziosamente la città un posto non secondario spetta a Emanuele Navarro Della Miraglia scrittore di Sambuca di Sicilia (Sambuca di Sicilia 1838- 1919) che, a detta di Leonardo Sciascia, ebbe un ruolo di primo piano nella nascita del Verismo italiano collaborando con G. Verga e L. Capuana e anticipando, a suo parere, anche alcune intuizioni pirandelliane.

Nella raccolta “Storielle siciliane” (Catania 1885) il suo sguardo si appunta sui paesaggi e sull’ambiente contadino della Sicilia che sostituisce l’ambiente borghese delle raccolte precedenti e la descrizione della Palermo di fine Ottocento, nel racconto “Conca d’oro” giustifica l’antico appellativo che veniva dato a questa città, cioè “ felicissima”. Già nell’incipit del racconto appare lo sguardo ammirato di Emanuele Navarro Della Miraglia sulla città “un semicerchio di montagne, una valle che ha circa trenta leghe di periferia e che si stende fino al mare dove Palermo si specchia e si bagna: ecco la Conca d’oro” il cui nome di antica origine è dovuto, a detta del Nostro, alla bellezza del paesaggio e alla fertilità del suolo. Dalla descrizione geofisica e toponomastica della città effettuata con larga messe di particolari indugiando sulle montagne poco elevate che circondano la città simili a quelle africane “biancastre, sassose e ripide”, su Monte Pellegrino in cui si trova “l’eremitaggio” di Santa Rosalia, sulle coste ricche di ogni genere di piante dei climi caldi, sommacco, ulivi, fichi d’india, melograni, agavi, frassini, sulla ricchezza d’acqua di molte sorgenti e del fiume Oreto, sul parco della Favorita ricco di alberi, sui meravigliosi tramonti che colorano d’oro e di rosso intenso cielo e mare per cui “l’occhio resta pensoso e l’anima sogna” si passa ad una descrizione urbanistica della città delineandone un affresco socio – antropologico. La città, asserisce l’autore, esercita una sorta di seduzione verso chi vi arriva per la prima volta o vi ritorna dopo lunga assenza e lo spettacolo riservato allo straniero è così bello, così incantevole “che il cuore batte più forte, commosso da una dolce esultanza”.

Ci si imbatte in una città costruita da arabi, normanni, mori e sui straordinari monumenti della Cuba, della Favara, della Zisa che testimoniano tale caleidoscopio di civiltà che si susseguirono. L’occhio scrutatore dell’autore osserva come ogni dominazione abbia lasciato la sua impronta sia negli edifici pubblici che privati per cui dove prima c’era una moschea adesso c’è una chiesa e spesso opulenza e miseria si mescolano e il “bello e il brutto si danno la mano” per cui accanto ad un bel palazzo con patio ed ai giardini pensili da cui emana il profumo dei gelsomini d’Arabia e degli agrumi, sono schierate catapecchie in cui risiede povera gente, senz’aria e senza luce, ma dall’insieme tuttavia emana un incanto soave e una “magia senza nome” e su un cielo così azzurro e diafano “che ha il sapore dell’infinito” svettano le guglie delle cupole, dei campanili che “splendono di mille raggi rifratti”. Il quadro è arricchito da alcune notazioni che descrivono il modo di vivere ed i costumi dell’epoca dello scrittore. Le vie di Palermo, infatti, ora dritte e lunghe, ora sinuose, sono brulicanti di gente chiassosa e di rumori ma anche risuonanti delle voci di pescivendoli, dei venditori di verdure, dei friggitori che hanno il sopravvento su tutte le altre. Verso sera il paesaggio è animato dalla presenza di donne ed uomini eleganti e raffinati “la classe eletta” a detta dell’autore e sembra che le figure umane prendano il sopravvento sull’ambiente e che siano esse a dare all’ambiente una fisionomia e un carattere. La passeggiata in carrozza verso sera è un’usanza quasi obbligata, la sola distrazione e il solo divertimento di cui gode la nobiltà per gran parte dell’anno.

Ecco allora sfilare per via Maqueda e il Cassaro giovanotti azzimati e ben vestiti e signore di cui si sente il fruscio delle vesti, l’agitarsi dei ventagli e l’ammiccare degli sguardi per cui “la mente si offusca e si ha il capogiro” mentre loro si pavoneggiano in bellissime carrozze alla volta delle due passeggiate più ambite, il Giardino inglese e la Marina. Il primo è paragonato per la sua bellezza all’orto delle Esperidi, in cui le piante dei tropici, i nespoli del Giappone, i limoni fioriti, le rose, emanano un profumo che “rammollisce i nervi, turba l’intelligenza, inebria i sensi”. Di notte si passeggia alla Marina, un luogo dal paesaggio magico, dove uno spazioso viale è lambito in tutta la sua lunghezza dal mare il cui orizzonte è pittoresco e “la luna e le stelle rischiarano la riva sinuosa e il paesaggio lontano” mentre le carrozze si fermano ad ascoltare la musica che proviene da “una specie di loggia” dove suona un’orchestra attorno alla quale si riunisce una folla di persone molte delle quali usano prendere il gelato sul lungomare della città per godere la brezza marina che smorza il calore del clima nella stagione estiva, mentre l’eco delle musiche in lontananza crea un’armonia indistinta “che sembra sorgere dalla terra e piovere dal cielo” . A tale emozionante spettacolo musicale si affiancano le note provenienti dallo sciabordio delle onde del mare che sembrano infiammarsi al chiarore delle lampare delle barche dei pescatori di polipi mentre “l’acqua sollevata dai remi ricade come una pioggia fosforescente”.

Come si evidenzia dall’analisi del testo l’autore affida l’efficacia della rappresentazione alla realtà, non intervenendo mai nel corso della narrazione con giudizi personali o non introducendo situazioni o vicende che si svolgono sullo sfondo del paesaggio descritto, il vero protagonista del racconto. La puntualità descrittiva, rapida, impersonale, di ascendenza veristica, erede dei Naturalisti francesi con cui il Nostro ebbe un vero e proprio sodalizio durante il suo soggiorno a Parigi, evidenzia tuttavia, dagli aspetti più generali a quelli più minuti un consapevole e diffuso lirismo intriso, forse, dalla nostalgia della sua Sicilia da cui per molto tempo era rimasto lontano. Lui, cosmopolita, che era stato in contatto a Parigi con i più grandi romanzieri da Flaubert a Zola e con uomini e donne dei salotti letterari e dell’ambiente intellettuale parigino, trasferendosi poi a Milano e Roma, ritorna con una punta di nostalgia ai luoghi della sua infanzia ricorrendo, per rendere più efficace la narrazione, a particolari strategie narrative come quando parlando di Palermo asserisce che “…produce una singolare impressione quando vi si giunge per la prima volta e dopo una lunga assenza (…). Ad un’attenta analisi del periodo citato non sfugge, infatti, che vi è indicato il vero protagonista del testo, lo sguardo di un visitatore attento e, successivamente, si fa cenno ai sentimenti che le realtà descritte possono suscitare in questo osservatore come si evidenzia nel sintagma: “un incanto soave, una magia senza nome spirano dall’insieme” o ancora nel sintagma “ il mare, calmo e tranquillo, mormora le sue note soavi anch’esso”. Si evidenzia nella “Storiella” anche l’uso di lessemi ormai desueti come in “lampe”, parola che designava le lampare o in “ aduste” per indicare le cime delle montagne aride , prive di vegetazione o ancora in “ frascato” termine connotante un riparo fatto con ramoscelli, riferito al venditore di cocomeri, o in “iettatura” per indicare il malocchio, e in “ fattucchiere” per indicare donne fornite di particolari poteri magici, oppure quando si cita “il volano” un gioco ormai in disuso che si faceva con racchette e con una mezza sfera di sughero”.

Nel testo si enuclea, tout court, un ritmo cadenzato e accurato nelle descrizioni che quasi fotografano i luoghi di Palermo con tale nitidezza che sembra di ascoltare il vocio della gente del popolo, le grida dei venditori di cocomeri e di altre merci, di osservare la bellezza del paesaggio, dei giardini emananti profumi variegati e dei palazzi in cui viveva la nobiltà che, in splendide carrozze, attraversava porta Felice per la passeggiata alla marina, il tutto corroborato da un’oculata scelta nell’uso delle parole che conferisce bellezza e colore alla narrazione. Tutto il testo ci riporta ad una civiltà per certi versi più umana di quella attuale sebbene lo scrittore – a ben guardare – ci ha dato una descrizione degli aspetti più singolari ed affascinanti della città non addentrandosi molto nei vicoli e chiedendosi come vivesse la gente che non abitava nei palazzi signorili e non trascorreva il suo tempo in pigre passeggiate. Con poche e incisive pennellate ci dà, però, anche un affresco socio- antropologico “del volgo” di Palermo con le donne che nei villaggi lavavano in ginocchio in riva ai ruscelli stendendo i loro panni in lunghe corde al sole, abbigliate con fazzoletti intorno al capo e scialli di lana a scacchi o a righe sulle spalle, mettendo in evidenza la religiosità e la superstizione dei palermitani che adornavano botteghe e case di immagini di madonne ma anche di corna perché sia nei tuguri che nei palazzi “si crede(va) in Dio e si teme(va) il malocchio”. Se uno scrittore o scrittrice volesse oggi descrivere Palermo non troverebbe neppure uno degli elementi per cui questa città appariva incantevole ancora alla fine del secolo scorso. Le strade e le piazze hanno mutato volto e al posto delle carrozze le auto e i mezzi pesanti “alla Marina” creano un rumore assordante con i clacson suonati più volte da uomini e donne alla guida, insofferenti per lunghe file di attesa e chiunque abbia nostalgia o desiderio di una passeggiata viene scoraggiato dal traffico persistente. Anche il palchetto marmoreo descritto come “scintillante di lumi” in cui suonava un’orchestra che rapiva con la musica i passanti a qualunque strato sociale appartenessero, abbandonato al degrado da tempo, solo di recente è stato oggetto di azioni di recupero e restauro mentre i dintorni della città offrono uno spettacolo di quartieri periferici anonimi e impersonali. Cesare De Seta in una sua pagina su Palermo tratta dal testo “Viaggi controcorrente” del 2007 scrive:“ E’ il centro storico un labirinto dove si aggirano i fantasmi nudi e muti del suo passato glorioso, emiri musulmani, sovrani normanni e svevi, viceré spagnoli. Signori come i Chiaramonte o gli Sclafani (…) sono i convitati di pietra sulla tolda di questa zattera alla deriva .(…) Ho visitato il palazzo che ha il nome della mia famiglia. E’ un fantasma tra i fantasmi” .

Non resta allora che cercare di immaginare com’era questa città attraverso geografie private, rievocando quei luoghi con la fantasia o il sogno oppure tramite la memoria dove sopravvivono all’incuria dell’uomo o delle ruspe e vivono di emozioni, di nostalgia, di fughe del cuore. E come non immaginare Palermo di un tempo attraverso le efficaci immagini che ci hanno lasciato artisti e artiste nell’ambito delle arti visive?

Tra questi occupa un posto di rilievo Il pittore Francesco Lojacono che ne “la veduta di Palermo” del 1875 mostra il paesaggio che allora avvolgeva la città di una magnificenza mitica mentre in “Villa alla conca d’oro” evidenzia un ampio scorcio dei giardini e un’ampia veduta del golfo con il mare azzurro e il cielo scintillante. Da citare anche gli scorci di Palermo di Mario Mirabella, allievo di Lojacono, di Emanuele Lajosa, di Michele Catti, Di Ettore De Maria Bergler e di Michele Cortegiani che attraverso le loro tele fanno rivivere le bellezze architettonico- paesaggistiche della città. Tra le donne artiste che hanno raffigurato Palermo merita di essere menzionata Elvira Volpes di cui scarse sono le notizie biografiche. L’unica fonte sicura dell’attività della Volpes è sulla rivista di arte e letteratura “Psiche” del 20 giugno del 1886 dove viene citata per avere esposto alla Promotrice di Belle Arti del 1886. Nel quadro del 1905 “Veduta della costa palermitana con Monte Pellegrino” la Volpes ci dà un bell’esempio di pittura di paesaggio . Il promontorio di Monte Pellegrino, caro a molti paesaggisti, nel dipinto è sullo sfondo mentre in primo piano sono gli scogli della costa palermitana e un pescatore che sembra fare da contorno al paesaggio che è il vero protagonista della tela. L’immagine della Conca d’oro e più in generale di Palermo si ritrova anche nella fotografia storica che riprende, a volte in modo molto simile, le immagini della pittura. Tra i fotografi che meglio hanno messo in evidenza immagini con vedute di Palermo un posto di rilievo spetta a Giuseppe Incorpora ( PA 1834-1914) autore degli scatti vedutistici “Foro italico e Monte Pellegrino” e “Foro Italico e Porta Felice” ambedue del 1890 circa; in quest’ultima foto, in particolare, la Strada Colonna col palchetto della musica e i palazzi barocchi sono ancora adiacenti al mare ma nel secondo dopoguerra i detriti causati dai bombardamenti e depositati a mare lungo la Strada Colonna hanno allontanato il mare dalla strada. Accanto ai grandi artisti citati come non menzionare i molteplici scrittori che hanno amato Palermo? Da Goethe che fu avvinto da “le spalliere di limoni, dalle palizzate di oleandri e dalle varietà di frutti e fragranze” a Edmondo De Amicis che evidenziò “ i violenti contrasti di questa stupenda e strana città dei Vespri e di Santa Rosolia”, a Giovanni Meli estasiato, a Porta Felice, davanti alla fontana con la sirena raffigurante la bella Eufrosina Corbera a Ippolito Nievo che scrive alla sua Bice che a Palermo ogni cosa appare “come un sogno incredibile” per non parlare dei futuristi Castrenze Civello attratto dal profumo di zagara della città e di Giacomo Giardina, il “poeta pecoraio” nativo di Godrano e apprezzato da Marinetti per il suo talento istintivo che, nel racconto delle sue passeggiate dallo Steri alla Cala afferma “che si starebbe a guardare per ore e ore, a stupirsi del colore, dei suoni antichi e voraci” . Attraverso le testimonianze di questi intellettuali si rimane estasiati ma anche nostalgici e immaginiamo Palermo e la Conca d’oro come la descrisse lo scrittore francese René Bazin che, soggiornando a Palermo, scrisse: “Palermo ha l’aria di una capitale, di un’antica città sovrana, (…). Davanti a sé ha una delle più belle baie del mondo (…) Dietro, un semicerchio di verde scuro, un immenso frutteto di agrumi, la Conca d’oro”. In questa città “in cui splendono i colori, parlano le pietre e stupiscono le stelle” lo scrittore francese, incantato dalle bellezze artistiche e paesaggistiche, scoprì il senso della vera felicità.

Mariza Rusignuolo

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