Spiaggia
Adesso sono qui, sulla spiaggia di Falconara, a respirare l’aria tersa del primo mattino, mentre una leggera brezza che spira dal mare, proveniente dalle coste dell’Africa, porta un’aria dolce e profumata. La luce, quella luce estiva, intensa e opprimente che esalta i colori e stordisce gli occhi, va, via via infittendosi.
Il cielo limpido è il preludio di una giornata caldissima. Una di quelle giornate senza speranza di pioggia, con poco vento e che spezza il respiro senza dare tregua, maledette da chi è costretto a lavorare all’aria aperta.
Eppure, è davvero piacevole passeggiare sulla battigia, con la risacca che bagna e fa affondare i piedi nella sabbia soffice, producendo un senso di benessere e di pace. Nell‘aria, un odore di sale, di alghe. Le impronte delle zampe dei gabbiani disegnano strani geroglifici sulla rena piatta e compatta.
Un vento leggero fruscia tra la macchia mediterranea e l’erba alta al di là delle dune, mischiandosi allo stridio degli uccelli marini e allo sciabordio dell’acqua.
Una dolce primavera è passata e l’avanzare dell’estate si preannuncia sensazionale. Cammino senza meta guardando distrattamente tra la sabbia, la spuma del mare e la linea dell’orizzonte. Mi è sempre piaciuto cercare quello che la corrente porta sulla spiaggia; le cose più strane e varie che, dopo aver vagato per il mare, si vengono a spiaggiare. Sono messaggi di altri tempi, di altri luoghi. Anche questa mattina il mare ha depositato sull’arenile le sue messi: bottiglie piene di concrezioni, sugheri di reti, rami di alberi portati dal mare da chissà dove, scarnificati, ormai imbiancati dalla salsedine e dal vento; pezzi di canne, frammenti di vetro levigati dalla risacca. Delle dune si ergono a una quindicina di metri dalla riva. La loro posizione, come morbidi sofà, mi invita a distendermi su di esse. Accelero il passo per affrontare la breve salita, i piedi si adattano ai morbidi dossi; il dislivello crea una specie di conca su cui mi distendo con la faccia rivolta al mare, mentre il sole sorgente all’orizzonte, riscalda il mio viso. Mi abbandono ad esso. Chiudo gli occhi, abbagliati dai raggi solari. Immergo le mani nella sabbia cercando quella umida al disotto del primo strato caldo. Per caso, entro in contatto con un piccolo oggetto. Lo estraggo speranzoso, portandolo in superficie, ma rimango subito deluso nel vedere una piccola massa indefinita coperta dalla ruggine. Sembra una piccola scatola, come quelle che contengono mentine, ma più piccola: i depositi sulla superficie ne impediscono un’identificazione. E’ stranamente pesante: mi incuriosisce. La soppeso sulla mano. Provo a pulirla, ma la resistenza delle incrostazioni è più forte della voglia di abbandonare lo stato di benessere in cui sono caduto. Non ci bado troppo; ripongo l’oggetto nello zaino che porto in spalla assieme ad alcune conchiglie e ad altri oggetti che ho trovato. Ci penserò dopo.
Finalmente il mezzo da sbarco si staccò dalla fiancata della nave e si mosse verso la linea di costa. Non più protetti dalle navi, i LCPV americani furono subito oggetto del fuoco delle batterie costiere non ancora zittite dai grossi calibri delle navi. Colonne d’acqua si alzavano ai fianchi dei mezzi d’assalto e alcuni, colpiti in pieno, saltavano in aria spezzandosi, mentre delle esplosioni squassavano alcune navi colpite. Come Dio volle, intorno le 05.00 del mattino, a Frank sembrò che il fondo piatto dell’LCVP toccasse la spiaggia; il portellone fu aperto dall’addetto e i soldati saltarono giù. I cannoni delle navi avevano zittito le batterie costiere, ma furono lo stesso accolti dalle raffiche rabbiose delle mitragliatrici posizionate tra le dune e da colpi singoli di armi automatiche. All’aprirsi del portellone Frank corse fuori, l’acqua gli arrivava alla vita, avanzò a fatica, ma fatti alcuni passi, avvicinandosi alla costa sprofondò nell’acqua; la sentì penetrare nei pantaloni, nella giubba, negli anfibi e tirarlo giù; una sensazione di gelo lo pervase. Aveva pensato di essere sulla spiaggia ma evidentemente il mezzo si era fermato su un banco di sabbia ancora distante dalla riva. Un soldato alla sua sinistra che stava uscendo dal portellone, cadde come un sacco, senza un grido. Frank, che si sentiva tirare giù dalla sua attrezzatura e dal peso dei vestiti inzuppati, pensò di morire annegato; pregava silenziosamente mentre ansimava nello sforzo di raggiungere la riva. Muoveva freneticamente gambe e braccia, per quello che fucile e attrezzatura gli permettevano, cercando di mantenere il viso fuori dall’acqua, “Non è possibile,” pensava, “non posso morire in così pochi metri d’acqua”. Fortunatamente le sue preghiere furono esaudite e i piedi toccarono la sabbia prima con le punte. Saltellando, cercò di avanzare faticosamente. Mentre tentava di uscire dall’acqua, sentiva i proiettili sibilare intorno a lui e spegnersi nel mare e sulla sabbia. Dopo un primo momento di quello che gli sembrò silenzio, cominciò a sentire grida, gemiti, imprecazioni, urla soffocate. Ormai l’acqua gli arrivava alla vita; vide un soldato a faccia in giù a pelo d’acqua. Con qualche difficoltà riuscì a rivoltarlo, ma lo accolsero solo un paio di occhi freddi e sbarrati, che lo guardavano stupiti e accusatori, quasi a volergli dire: ”perchè tu sei vivo e io no? La tua vita è più degna di essere vissuta della mia?” Sentendosi colpevole, senza risposte, lo lasciò andare. Diede uno sguardo intorno, cercando il suo sergente e i suoi uomini, ma alle prime luci del mattino e nella confusione vedeva solo ombre che si piegavano in avanti cercando di sfuggire alle pallottole. Finalmente arrivò sulla spiaggia. Avvertì il duro del contatto dei suoi anfibi con la sabbia; a ogni passo sentiva il cic-ciac dell’acqua che gli usciva dagli scarponi: tutto questo gli sembrò ridicolo. Dopo essere arrivato sulla riva ed ebbe percorso una ventina di metri, si acquattò dietro una duna. Che strano, in quel drammatico momento, la sua conformazione gli ricordò quella di un morbido sofà. Il fuoco delle mitragliatrici nemiche si era ridotto, ma alcuni nidi continuavano a battere la spiaggia. Si voltò verso il mare e vide sullo sfondo i grossi calibri delle navi continuare a bombardare l’entroterra; le loro vampate oramai si perdevano nella luce del mattino; le mitragliatrici dei primi Sherman sbarcati abbaiavano, avanzando a fatica, e gli LCVP continuavano a scaricare uomini sulla spiaggia. Si guardò intorno alla ricerca dei suoi uomini. Vide il suo primo sergente che stava radunando la propria sezione. Si avvicinò carponi e chiese il rapporto. Il sergente lo guardò, abbassando lo sguardo: “abbiamo perso Michael: è a terra, indietro sulla spiaggia; mancano Cimino, Croford e Jenkins; gli altri dovrebbero essere tutti qui intorno”.
Da “La città del giardino dei cedri” di Pasquale Morana edizioni Albatros