Cosa ci rimane dell’arte?
Ho sempre visto nella scrittura il mio mezzo espressivo artistico per elezione, quello nel quale mi sentivo
a mio agio, dove riuscivo a dare il massimo (non il meglio, quello non so). Nella mia famiglia c’era già un
pittore e quindi quella per me era strada già occupata, corsie piene, traffico, meglio lasciare perdere. Si
aggiunga anche il fatto, non trascurabile, che io e i pennelli non siamo andati mai d’accordo. Troppo complicate da gestire quelle setole sfuggenti, per me impossibili da addomesticare. Stendere il colore con
i rulli su una parete sono in grado di farlo, l’ho sempre fatto, tinteggiando le pareti di casa mia diverse
volte, sebbene poi ne pagassi il conto con un mal di schiena insopportabile, resistente anche
all’epatotossico Aulin.
Le cose sono cambiate per me quando nel 2017 ho scoperto la possibilità di dipingere con dei pennarelli
molto conosciuti nell’ambiente dei graffitari, i Molotow. Una sorta di Uniposca evoluto. Maggiore varietà
di colori, punta intercambiabile quando usurata, pennarelli ricaricabili e soprattutto dimensioni crescenti,
insomma una manna per un inetto come me. Ho quindi dato fondo ai miei risparmi e nel giro di poche
settimane ho riempito la scrivania di prodotti Moltow. Sono diventato, di fatto, un azionista di minoranza
dell’azienda.
Il primo disegno che ho fatto non è in mio possesso – non lo è mai stato in realtà – perché scomparso sotto una mano di pittura lavabile per interni. L’avevo realizzato infatti su un muro bianco dell’ufficio in cui passavo diverse (troppe) ore al giorno. Dopo aver letto il bel libro L’eleganza del riccio e aver visto anche il film, ho cercato di seguire le orme di Paloma, la ragazzina protagonista del romanzo, la quale sulla parete della sua cameretta realizza un bellissimo disegno monocromatico composto da piccoli quadrati che, per un gioco di accumulo, andavano a comporre un bell’affresco. Un giorno, per noia, per desiderio di fuga, l’ho imitata e mi sono divertito assai. Ma il processo creativo, come si sa, non è mai l’esito di una sola fonte di ispirazione. Volendo andare più indietro nel tempo, ci fu un altro film che mi colpì molto sul piano iconografico. Era il 1995 quando vidi con estremo piacere Ivo il tardivo, un film diretto e interpretato da Alessandro Benvenuti, che raccontava di Ivo, un ragazzo con problemi di salute mentale che aveva decorato le pareti del cascinale in cui viveva, con cruciverba, rebus e altri dettagli provenienti dalle riviste di enigmistica. Certe esperienze visive rimangono nella memoria più a lungo di altre costituendo un sedimento su cui poggiare le nostre produzioni future.
Un altro sedimento importante per me è stata una bella mostra che si tenne a Palermo ai Cantieri Culturali della Zisa diversi anni addietro, di un artista australiano che risponde al nome di Biggibilla. I suoi quadri sono colmi di colori forti, linee decise, e dei dots tipici dell’arte aborigena, per un risultato davvero
godibile. Mia moglie ed io sviluppammo una sorta di mania per questo artista, lei riproducendo alcuni suoi quadri, perché capace di dare del tu ai pennelli, io limitandomi a riproporre i punti monocromatici nei miei lavori.
Con il tempo i miei interessi si sono modificati e mi sono venuti a noia gli acrilici dei Molotow, forse
anche per il loro rimando storico ad azioni violente, incendiarie, di bottiglie esplosive, nonostante una w
finale sembra essere stata messa appositamente lì per sviarci da ragionamenti anarchici.
Comunque, dicevo, alla fine ho messo da parte i colori per innamorarmi dei collages, pensando fosse
possibile dipingere con i ritagli delle riviste. Come sempre mi sbagliavo ma non è stato un male. Con le
riviste, zeppe di visi di donne, ho scoperto nuove possibilità. Ho scoperto che il viso umano, sebbene
trasfigurato, reso irriconoscibile da sovrapposizioni e interventi grafici successivi, è un soggetto che mi ha
sempre ispirato e che ho continuato a esplorare negli anni successivi.
Ma tutte queste confessioni a che pro?
Non certo per una forma di pubblicità subliminale, ma per riflettere a partire dalla mia esperienza
sull’importanza della produzione artistica, sul fare arte con la a minuscola, senza la pretesa cioè di riempire le sale delle gallerie d’arte o dei musei. Espressione artistica come cura di sé, come luogo intimo
dove è possibile imparare un sacco di cose su se stessi, sulle proprie potenzialità, sui propri limiti, sul
proprio modo di pensare e di agire.
Ecco allora cosa ho imparato dopo aver cominciato a dedicare un terzo della mia giornata alla produzione
di arte di piccolo cabotaggio.
La prima lezione che ho appreso riguarda lo sviluppo di abilità manuali che altrimenti non si avrebbe la
possibilità di esercitare. Passando dal colore al collage per approdare oggi alla realizzazione di maschere
lignee – una sorta di scultura assemblata – ho potuto acquisire capacità fino motorie che, stando davanti a un computer, non posso certo mettere in atto, fatta eccezione per i colpi inferti a una povera tastiera.
Rimanere dentro i bordi di un disegno, ritagliare con precisione, incollare assi di legno, smerigliare,
forare, levigare, verniciare, sono solo alcune di queste abilità e vi assicuro che non ce n’è una che non vi
tornerà utile nella vita di ogni giorno. Per esempio, quando vi si romperà un rubinetto e sarete costretti a
cambiarlo da voi, perché la domenica – giorno in cui i rubinetti prediligono rompersi – non è possibile far
venire un idraulico. Oppure quando una vecchia poltrona non sta più in piedi da sola e ha urgente bisogno di un piede nuovo. Potrebbero sembrare abilità inutili ai nostri tempi, dove le nostre specializzazioni sono sempre più burocratiche, eppure nell’ottica del collasso della società attuale verso cui stiamo cavalcando, le abilità manuali non sono certo da sottovalutare. Rimanendo in tema, ricordo con piacere il mio primogenito Fabrizio alle prese con la costruzione di un terrario in vetro per accogliere i suoi amati rettili.
Aveva all’incirca quattordici anni e io lo lasciai fare, sebbene il vetro non fosse un materiale privo di
rischi. Ma lui si era documentato bene e con attenzione lo assemblò con maestria. Fu il primo di una serie
che affollarono le nostre case negli anni seguenti. Il secondogenito Karel, invece, è sempre stato attratto
da lavori con meno coefficiente di precisione, lavori dove fosse stato possibile demolire qualcosa, muretti
in cemento o vecchi mobili in legno, poco importava, essenziale era, per lui, fare casino, possibilmente
con strumenti meccanici. A lui ho dato quindi il compito di smantellare, con uno scalpello pneumatico, un
vecchio pavimento, procurandogli una gioia immensa a giudicare dalla sua espressione soddisfatta. Tutte
queste info biografiche servono a sottolineare la necessità di cominciare presto ad esercitare le abilità
manuali, vincendo le legittime paure genitoriali. L’arte, ma anche l’artigianato, che è arte nobile quanto la
prima (e ad essere sincero in alcuni casi trovo difficile segnare il discrimine tra le due), sono strade che
permettono di fare questo tipo di esercizio per tutta la vita, sin da bambini.
E ora andiamo alla seconda lezione che ho appreso.
Quando sono alle prese con la realizzazione di un collage, la mia attenzione rimane viva per un tempo
lunghissimo, senza che il mio anziano cervello ne risenta più di tanto. Rimanere concentrati a lungo è
diventata oggi una virtù rara. Nell’era del digitale, già da piccolissimi siamo costretti a fare pensieri brevi,
della durata tipica di una schermata che ci dice tutto in un’unica occhiata e che viene scacciata via con un
gesto veloce del pollice, per farne comparire un’altra che subito farà la stessa fine della precedente. La
velocità, esaltata da Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto del Futurismo, è mito remoto di cui il
ventennio fascista si è nutrito. Ma i risultati di questo correre quali sono stati? In tempi recenti si è pure
smesso di parlare di semplice capitalismo per preferire la locuzione turbo-capitalismo, per sottolinearne la
velocità vorace, ma distruttiva, di cui si compone la versione contemporanea e frenetica di questo sistema
economico-politico.
Dedicarsi alla produzione artistica, in qualsiasi forma, ci costringe a rallentare i tempi, ponendo attenzione
ai dettagli, per tenerli insieme in un tutto organico e denso di significato. E il nostro cervello non si stanca,
nonostante questa concentrazione protratta nel tempo possa apparire sforzo eccessivo. Come mai?
Semplice rispondere: perché si sta divertendo e con lui anche tutto il corpo, anche quando ci sono degli
sforzi fisici da sostenere: dopamina, endorfina, serotonina. Stiamo allenando, senza accorgercene, la
materia neuronale di cui è fatta la neocorteccia e insieme ad essa la resistenza dei nostri bicipiti.
La terza lezione che la pratica dell’arte mi ha regalato è la seguente.
Quando ho cominciato a scrivere il mio primo racconto, mi sono subito imbattuto in una difficoltà, esito
dei miei limiti in merito alle conoscenze grammaticali. Per me la lingua è principalmente suono, armonia,
musica; quindi mi accorgo che la frase è scorretta non perché ne sappia nominare le parti del discorso
errato, ma perché nella mia testa quella frase risulta stonata, disarmonica, irregolare e, in definitiva, poco
chiara se non incomprensibile. Allora ci lavoro su, fino a quando la melodia ritorna, quando tutti i pezzi di
cui si compone finiscono con l’incastrarsi tra di loro. L’armonia finale è quindi sempre l’esito di un duro
lavoro di correzione degli errori che si finisce per accettare come amici, come punti di partenza
indispensabili a qualsiasi espressione della creatività. Sono loro a costringerci a trovare soluzioni creative
per aggirare gli ostacoli che i nostri stessi limiti ci impongono.
Quando realizzo i miei collages, avviene esattamente la stessa cosa. Commetto degli errori costantemente: una forma ritagliata male, un accostamento cromatico fastidioso, una distesa di colla nel punto sbagliato.
Ma se non ci fossero questi errori, non sarei nulla. L’artista si nutre dei suoi errori e questi ultimi lo
ripagano dandogli una lezione di pazienza, indicandogli strade alternative più gratificanti, strade che gli
dicono qualcosa anche su di lui, sulle sue parti nascoste che vengono alla luce solo quando l’artista si
spinge oltre i confini delle zone d’azione che meglio conosce. A titolo di testimonio, quando comincio un
lavoro non vedo l’ora di commettere quegli errori, per vedere se dentro di me c’è ancora qualcosa di
interessante da scoprire.
Quarta lezione appresa.
Quando, a lavoro concluso, guardiamo il prodotto dei nostri sforzi artistici, siamo sostanzialmente
contenti, non del tutto ovviamente, ma in gran parte sì. Siamo contenti perché riteniamo di aver prodotto
qualcosa di bello. Ovviamente la considerazione che noi possiamo avere del nostro stesso lavoro vale zero in senso assoluto, ma vale tanto in senso relativo. Il nostro apprezzamento non ci dà infatti indicazioni sul potenziale successo socio-economico che potrebbe avere la nostra opera se fosse promossa nello spazio pubblico. Ciò che importa è di perseguire la bellezza.
Attraverso il fare creativo, scopriamo– che la bellezza sotto tutte le sue forme ha la capacità di produrre in
noi gioia, ancora di più se quella bellezza è generata dalle nostre mani. Molti confondono la bellezza con
il successo o, meglio, considerano il successo il metro di misura della bellezza. Ma qui non si sta parlando
di ciò che è bello per i critici, per il pubblico vasto di potenziali collezionisti d’arte; qui parlo del
significato che per noi, e solo per noi, assume un manufatto frutto della nostra laboriosità e impegno
artistico. Questo tipo di bellezza ha la capacità di garantirci una quota di benessere psichico
incommensurabile. Questo stesso benessere, che io ho chiamato gioia, è anche il propellente per tornare
sulle tele, sulla tastiera, in laboratorio, per ricominciare il processo produttivo ancora una volta.
E adesso devo andare alle conclusioni, per evitare di farmi prendere la mano allungando a dismisura
l’elenco delle lezioni apprese.
Ecco l’ultima che, a mio avviso, ha la capacità di dire qualcosa su una tendenza molto diffusa oggi,
generata da quel turbo-capitalismo di cui sopra: il perfezionismo. Una vera trappola, una nevrosi
contemporanea fonte di forte disagio. Da dove ci viene questa voglia di essere sempre perfetti, e in che
modo il fare artistico ci può aiutare a liberarcene? La provenienza del perfezionismo è difficile da
individuare, perché viviamo in un mondo complesso dove non regge un approccio esplicativo di tipo
lineare, nel quale B è un effetto semplice della causa A. Questa visione deterministica è già da molti anni
messa in discussione da un approccio reticolare e multifattoriale, dove sono molteplici i micro-eventi che
hanno la capacità di co-determinare un nostro comportamento, ancorché nevrotico. Ognuno, se ne ha
voglia e tempo, cerchi i suoi fattori scandagliando la propria vita interiore, rivoltando le proprie dinamiche
familiari, ma anche situandosi da un punto di vista sociologico (classe, genere, “razza”, ecc.) e storico (era
del consumismo individualista,turbo-capitalismo, neoliberismo…). Posso solo dire che un fattore tra i
tanti, forse tra i più pericolosi, che possono generare perfezionismo nella sua forma nevrotica, è la
richiesta costante di maggiori prestazioni da parte del mondo del lavoro. La prestazione in ambito
lavorativo è diventata l’unico criterio per misurare il valore di una persona, e questo atteggiamento non
solo mi sembra tossico ma pericoloso.
Io, francamente, abbraccio con devozione la mia imperfezione, coltivandola con cura attraverso la ricerca
artistica (sempre con la a minuscola), ogni singolo giorno della settimana. Quello che produco è
intrinsecamente imperfetto, e proprio per questo mi affascina, perché mi rammenta che anch’io sono
imperfetto. Eppure, nonostante questa mia imperfezione, continuo a sopravvivere, psicologicamente
parlando.
Mauro Li Vigni