Di Voi che resta 

L’arte digitale e la nostalgia del tempo perduto  nelle opere di Santi Sparta’.

C’è un filo conduttore, netto come la ferita provocata da un bisturi, che attraversa trasversale queste immagini. Esse sembrano chiedere, anche se con la discrezione di un sogno che non ama essere violato, di venire osservate con pudore, come se lo sguardo sempre indiscreto dell’osservatore potesse turbare il silenzio che esse abitano, nel mondo quantistico da cui forse provengono.

Il comune denominatore che ci viene trasmesso dalle opere di Santi Spartà, sia che si tratti di figure umane piuttosto che di ambienti e paesaggi, rimane un senso di profonda e irrimediabile solitudine; una solitudine che tuttavia nella maggior parte dei casi non viene passivamente subita come una condanna, ma assume i contorni di un volontario e consapevole isolamento,  un estremo gesto di auto-determinazione, in un raccoglimento di liberatoria meditazione che rimane alieno dall’invadente universo di rumore nel quale siamo perennemente immersi.

Ci sono soltanto tre soggetti che a mio parere vale la pena di ritrarre : le donne, la natura e la solitudine umana. Tutto il resto, parafrasando Rutherford, è ‘collezione di francobolli’. 

Così afferma l’autore, con un pizzico di autoironia verso l’altra parte di sé, quel mondo fisico e razionale intento a misurare ogni cosa, in eterna lotta con le visioni poetiche che amano trovare le risposte nei sogni o nel balenare delle stelle, assai meno remoto di quanto appaia nei più sofisticati telescopi. 

Abituati ormai all’invasione di immagini create con tecniche di Intelligenza Artificiale, con le loro esibite e indiscrete ridondanze, siamo restii a credere che queste “tele”, spesso malinconiche, quasi sempre inquietanti, possiedano le medesime radici.

Provo a rompere il ghiaccio: “In che modo” chiedo, “le sue opere si collocano nel panorama sempre più affollato dell’arte prodotta dalla Intelligenza Artificiale?

Mi risponde in tono pacato: “C’è un utilizzo bulimico e volgare di queste nuove metodiche legate alle capacità generative dell’Intelligenza Artificiale, così come avviene in generale con tutte le novità tecnologiche, basti pensare ai social media. D’altronde è sempre stato così, per qualunque novità che possa mettere in discussione certezze consolidate, le quali tuttavia andranno prima o poi in frantumi, anche se in genere soltanto per dare spazio a nuovi dogmi.”

Ma l’intelligenza artificiale non possiede fantasia! Come è possibile considerarla arte?” chiedo quasi ribellandomi.

Santi piuttosto che trovare spiegazioni complesse “…ha perfettamente ragione” risponde disarmante. 

“Però lo stesso ragionamento andrebbe applicato anche al pennello o ai pigmenti artificiali che hanno liberato i pittori dalla necessità di frantumare i minerali, il carbone o le ossa di animali; o ancora allo scalpello elettrico degli scultori contemporanei o al computer utilizzato dagli architetti. Credo che Giotto, Michelangelo e Brunelleschi sarebbero entusiasti di avere a disposizione le tecniche moderne. 

Allora il problema vero non è come esprimi ciò che hai dentro ma se hai davvero qualcosa da esprimere. Il resto è tekné”

Di voi che resta. Come nasce questo titolo, inconsueto per una mostra d’arte?” chiedo.

“Il titolo della raccolta ricorda il testo di una canzone di Franco Battiato, tratta da una lirica scritta da Charles Trenet del 1942, in una Francia occupata e calpestata dal soffocante e brutale tallone nazista. 

Così come è facile immaginare che dietro le parole di tristezza verso amori perduti sia celata la sofferenza di un Paese piegato dalla violenza dell’invasore, allo stesso modo si può pensare che le parole di Battiato nascondano in modo più o meno trasparente malinconie più profonde di quelle che un rapporto affettivo, per quanto intenso, sia in grado di produrre. Ed è probabile che Franco, il quale possedeva  una visione olistica del mondo, intendesse esprimere lo sgomento nei confronti dello scor-rere inesorabile del tempo, piuttosto che strimpellare la solita lamentela sull’amore smarrito”

Ciò mi suggerisce che forse anche queste opere intendano rappresentare qualcosa d’altro, oltre alla suggestione fornita da immagini indubbiamente seducenti” chiedo d’impeto.

La maggior parte di questi “quadri” – come mi permetto forse impropriamente di definirli – riproduce immagini femminili, generalmente assorte in pensieri che possiamo forse intuire ma che non si palesano al nostro scrutare. Sembrano figure assolutamente atemporali, come congelate in un eterno istante e trasmettono un senso di rassegnata serenità, di muta accettazione di un destino che non ci è dato conoscere. 

Le pochissime immagini maschili mostrano invece corpi contorti, affranti, sopraffatti da un fato crudele e incomprensibile. Cosa intende esprimere con questa differenza così palese?”

“Credo fermamente che l’animo femminile abbia qualcosa che lo rende speciale. Esso si comporta come un diapason in grado di vibrare alla stessa frequenza dell’universo e della sua tremenda bellezza. Il destino di generare la vita e di farla sopravvivere alla brutalità dell’entropia; la capacità di comprendere in modo istintivo la complessità del mondo; l’intuizione irrazionale verso soluzioni apparentemente improbabili;  l’innata attrazione verso la bellezza e l’armonia: tutto questo rende la donna profondamente diversa dall’essere maschile, il cui animo, ad onta delle sbandierata saldezza virile, è generalmente più monolitico e fragile e soccombe più facilmente alle avversità, verso le quali mostra minor resilienza, magari rispondendo ad esse nel modo più ottuso: la violenza. 

Per questo motivo i miei uomini sono tormentati da un destino avverso, piegati dalle difficoltà, ripiegati verso se stessi e il loro tormento, sprofondati in una solitudine che è definitiva e irreparabile. Più fragili, in fondo, delle loro compagne. Che d’altra parte essi non sono quasi mai in grado di comprendere”

Rosa Di Stefano

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