Malintesi e modi di dire
È molto difficile capire e parlare perfettamente una lingua che non sia quella materna, anche quando la si conosce a fondo e si vive da anni immersi in quella lingua: ci sono sempre equivoci in agguato, legati soprattutto ai modi di dire. L’equivoco più comune è quello di mescolare frasi fatte.
Ricordo che una volta ero ad una cena importante nel college, di quelle dove c’erano più portate di quante se ne potesse mangiare, dunque bisognava sapersi controllare e rifiutare educatamente alcuni cibi. L’equivoco nacque dal fatto che ci sono due modi standard di dire ‘no, grazie’ in modo elegante (“no, thank you” era considerato troppo forte in quelle circostanze, in cui si cerca di evitare il “no” diretto.)
Uno di questi modi è “I’ll give it a miss, thanks”, cioè “salterò questa portata, grazie”. Un altro è “I’ll pass, thanks”, cioè “non mi servirò, grazie”. Io, senza rifletterci, ebbi la cattiva idea di mescolare le due frasi, così venne fuori “I’ll give it a pass, thanks”. Questo però, specialmente in ambiente accademico, ha un significato completamente differente, vuol dire “gli do appena appena la sufficienza”, per cui tutti scoppiarono a ridere, dicendomi cose del tipo: “what, non even a third?”, cioè: “Ma come, nemmeno un sette stentato?” Fortunatamente, tutti capirono l’equivoco, ma il fatto che me lo ricordi ancora dimostra quanto fu imbarazzante, specialmente per me, che insegnavo linguistica computazionale. Allora però gli Inglesi in generale, e gli accademici in particolare, avevano uno spiccato senso dell’humour (purtroppo sparito, come tante altre cose laggiù).
In un’altra successiva occasione, ero appena diventato direttore del dipartimento, per cui mi toccò di dirigere la mia prima riunione di facoltà. Volendo fare bella figura ed avere un impatto immediato, arrivai armato di una serie di proposte su come riorganizzare il dipartimento, e cominciai a spiegarle. Stranamente, la reazione generale fu di dirmi “we can hear you, Roberto”, cioè “ti sentiamo bene”, al che mi rallegrai che tutti sentissero bene, dato che eravamo in tanti, segnai quel punto come accettato, data la mancanza di osservazioni negative, e passai alla proposta successiva. Dopo averla spiegata, diversi colleghi intervennero per dirmi “we can really hear you”, cioè “ti sentiamo davvero bene”, al che io espressi soddisfazione per l’ottima acustica della sala, segnai il punto come approvato e passai a quello successivo. Andò avanti così per tutta la riunione. Quando finì, il professore con cui avevo più confidenza mi prese da parte e mi spiegò cos’era successo.
Venne fuori che, per l’etichetta accademica di allora, dire ‘non sono d’accordo’ al direttore era considerato sgarbato, per cui si diceva “I can hear you” nel senso di “tutto quello che posso dire di positivo sulla tua proposta è che la sento bene.” Ovviamente fu piuttosto imbarazzante e dovemmo rifare la riunione.
Questi aneddoti potrebbero far pensare che questo tipo di equivoci sia limitato agli stranieri, ma non è così: data la natura fortemente ambigua della lingua inglese, può succedere anche ai parlanti nativi di trovarsi in queste situazioni.
In una riunione di fine anno, dovevamo assegnare le classi di voto agli studenti: dato che le classi sono piuttosto ampie, di solito si apre una discussione sui casi al limite di due classi. In generale, se non ci sono ragioni ostative, si assegna la classe superiore. Nel caso di una studentessa, però, uno dei colleghi inglesi si oppose al beneficio del dubbio, con questa frase: “the number of time I had her in my room!”, con un tono infastidito, che, nel suo intento, voleva dire “mi è venuta a scocciare un sacco di volte nel mio ufficio”. Però “to have” è una parola super-ambigua, che all’interno di quella frase e di quelle circostanze suona naturalmente come “me la sono fatta un sacco di volte nel mio ufficio”. Lui ovviamente aveva in mente la situazione corretta, per cui non si era accorto dell’equivoco, ma tutti noi scoppiammo a ridere e poi gli chiedemmo se voleva riorganizzare la frase prima che la mettessimo a verbale. A quel punto, anche lui si rese conto della possibile, e molto pericolosa, confusione.
Ovviamente avevamo capito tutti cosa intendeva, ma la regola era che si dovesse verbalizzare la frase esatta, per cui gli fu offerta la possibilità di riformularla.
Probabilmente questa naturale ambiguità dell’inglese è parte della ragione per cui l’humour era, un tempo, tanto comune e apprezzato in quella nazione.
Roberto Garigliano