PAZZIA

LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533)

Orlando Furioso  (XXIV, 1-3)  

1

Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno piú espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
2
     Varii gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giú, chi qua, chi lá travia.
Per concludere in somma, io vi vo’ dire:
a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,
si convengono i ceppi e la catena.
3
     Ben mi si potria dir: — Frate, tu vai
l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. —
Io vi rispondo che comprendo assai,
or che di mente ho lucido intervallo;
et ho gran cura (e spero farlo ormai)
di riposarmi e d’uscir fuor di ballo:
ma tosto far, come vorrei, nol posso;
che ’l male è penetrato infin all’osso.

Tratte dal celebre poema epico-cavalleresco rinascimentale “Orlando Furioso”, queste tre ottave sono una sorta di meditazione del poeta sulla passione amorosa, che apre il canto successivo a quello in cui è stata raccontata minuziosamente la follia dell’eroe cristiano Orlando. Questi, nella rappresentazione di Ariosto, ha perso la testa per amore, meglio ancora per gelosia.

Basterebbe soltanto parafrasare queste strofe per indurre una serie di riflessioni che mantengono tutt’oggi la loro forza. Cosa dice qui il poeta? Che chi resta invischiato nella passione d’amore ne esca al più presto perché, a giudizio unanime, si tratta di pazzia. Una pazzia che, seppur non estrema come quella di Orlando, si rivela tale anche attraverso altri segnali, il primo dei quali è proprio quello di perder se stessi per volere altri. Le reminiscenze dantesche della seconda ottava sono troppo evidenti per non essere notate: impazzire d’amore è come perdersi in una foresta (la celebre selva oscura) in cui ciascuno travia nelle direzioni più disparate (il chi su, chi giú, chi qua, chi lá della bufera infernale dei lussuriosi). Non si può condurre tutta la vita così, fino alla vecchiaia. È da stolti. Il poeta poi risponde all’obiezione di chi lo accusa di predicare bene e razzolare male. Ariosto già ad inizio di poema ci aveva informato della sua invincibile passione d’amore. Egli è cosciente della sua condizione, e quel che qui dice lo dice perché ha un momento di lucidità. Spera un giorno di liberarsi di questa passione, ma ammette che in questo momento lo abita fino all’osso. Questo è quel che ci dice.

La meditazione sull’amore come passione vorticosa appartiene a tutte le epoche della letteratura italiana, e in questa rubrica, almeno fin qui, ha costituito il filo rosso della poesia, dai tempi dei poeti siciliani della corte di Federico II (Desiderio), attraverso la grandezza di Dante (Amore) e Petrarca (Cuore) e la leggerezza di Lorenzo il Magnifico (Giovinezza), fino a questo sguardo, tra il rassegnato e l’ironico, del grande poeta ferrarese. L’amore di cui qui si tratta è lo stesso che ha tragicamente segnato la vita dei danteschi Paolo e Francesca. Nel costruire il suo personaggio, contravvenendo all’immagine dell’eroe forte, coraggioso e pieno di fede, Ariosto getta uno sguardo sulla fragilità radicale dell’animo umano, insidiato incessantemente dal desiderio.

Il poeta attualizza e crea un ponte tra i cavalieri altomedievali e se stesso, autorizzandoci a fare altrettanto tra lui e noi. Egli sa per esperienza che dalle dipendenze è molto difficile uscire. Conosciamo bene le dipendenze da alcol e quelle da fumo, ma molto di meno si parla delle dipendenze dal dio Eros, che agisce in regime di anarchia e si fa beffe, come si può constatare ancor oggi, di tutte le convenzioni sociali. Nella società borghese e moralmente controllata, come un secolo fa rilevava Freud, Eros è il grande assente dalla riflessione pubblica proprio per le ragioni di cui parla Ariosto: perché della pazzia non si parla. Lo faceva però spudoratamente Pirandello nelle sue opere.

Ariosto non si fa scrupolo di dire chiaramente come stanno le cose, chiamandole con il loro nome. Eros è capace di tradursi in pazzia, in perdita del senno, in smarrimento nella foresta degli impulsi che annebbiano la mente e portano in mille direzioni. Egli ne è coinvolto e proprio per questo consiglia di togliere quanto prima il piede dal vischio, e di non imbiancare in mezzo al vischio.

Oggi la sociologia parla di innamoramenti a settant’anni e anche oltre, ed il mito dell’eterna giovinezza, così come il tabù della morte, consente ad Eros di continuare a spadroneggiare ben oltre l’età di quella stessa giovinezza che, per Lorenzo, si fugge tuttavia. Oggi pare che non fugga mai, lei ed il suo amato compagno, proprio Eros.

Maurizio Muraglia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *