Raccontiamo sempre un’unica storia

Nel 1996, dopo una lunga carriera come giornalista specializzato in informatica e una altrettanto
florida carriera da imprenditore, Chris Anderson, britannico di passaporto ma nato in Pakistan nel
1957, ha dato vita a uno degli esperimenti di divulgazione delle idee di maggiore successo: le
TED Talk.
All’interno di questo canale web si rintracciano migliaia di brevi conferenze tenute da esperti in
diverse discipline, liberamente fruibili da chiunque lo voglia. E’ sufficiente andare su Google,
digitare “TED Talk” e poi scegliere l’oratore che più ci piace, l’argomento che più ci interessa,
l’atmosfera che più ci stimola. L’obiettivo di questa iniziativa lodevole e molto interessante,
tutt’ora valido e concretamente raggiunto con successo, è quello di trovare nuovi modi per
affrontare difficili problemi globali, attraverso la condivisione di idee. Con questo semplice
espediente, fondato sull’uso intelligente della banda larga, TED raccoglie al suo interno
conferenze brevi in grado di coprire tutti gli argomenti possibili, tra cui scienza, cultura, mondo
accademico, affari, questioni globali e anche musica. Molti conferenzieri – al netto della
propaganda e della fuffa che anche in questi luoghi virtuosi si può trovare – sono animati da uno
stesso identico desiderio, forse pretenzioso: quello di comprendere meglio il mondo per
cambiarlo.
Sul canale TEDx, che ritrasmette eventi organizzati localmente, esistono anche conferenze in altre
lingue fra cui l’italiano.
Per gli amanti della musica che volessero cominciare a esplorare questo mondo affascinante,
consiglio di partire da qualcosa di immediatamente coinvolgente come, per esempio, la bellissima
conferenza tenuta dal famoso chitarrista australiano Tommy Emmanuel, il quale nel suo talk “My
Life As a One-Man Band”, in soli diciotto minuti ci racconta di sé, del suo rapporto con la
musica, di come ha sviluppato la sua tecnica sopraffina, offrendoci allo stesso tempo gustosi saggi
del suo virtuosismo musicale.
Chi ha letto i precedenti articoli di questa mia rubrica sa che le mie lunghe introduzioni servono a
creare un punto di partenza da cui far partire la riflessione sul tema “di giornata”.
Quello di cui voglio parlare oggi riguarda un discorso tenuto da Chimamanda Ngozi Adichie,
talentuosa scrittrice nigeriana vincitrice di diversi premi internazionali. Pubblicato su TED nel

2010, questo discorso ha per titolo “The danger of a single story”, ed è diventato, nel 2020, un
libretto edito da Einaudi con un titolo fedele all’originale: “Il pericolo di un’unica storia”.
Ngozi Adichie racconta che, quando era bambina, amava molto leggere e prendeva spesso libri in
prestito dalla biblioteca della sua città natale, Enugu, in Nigeria. Le storie che leggeva però
raccontavano sempre di bambine dai capelli lunghi, biondi e dagli occhi azzurri. Quando, ancora
bambina, l’autrice cominciò a scrivere i suoi primi racconti, si ritrovò a raccontare anche lei di
bambine bionde con gli occhi azzurri che facevano merenda con tè e biscotti.
Con gli anni, la crescita e soprattutto l’esperienza di studio e di vita fatta negli Stati Uniti, Ngozi
Adichie ha finito per comprendere che altre erano le storie da raccontare, delle storie che
potessero collocarsi fuori dai confini omologanti, dominanti e oppressivi, che l’Occidente ha
prodotto ed esportato in giro per il mondo dall’inizio del periodo coloniale. Col tempo, la nostra
Chimamanda è riuscita benissimo nel suo intento di portarci fuori dai sentieri battuti e lo ha fatto
con i suoi romanzi, tra i quali mi sento di consigliare L’ibisco viola, la storia delicata e toccante di
un bambino che ha conosciuto troppo presto l’intolleranza religiosa e il lato più oscuro del suo
Paese, la Nigeria. Leggendo storie d’altrove, il lettore, preso di sorpresa, si accorge che lì fuori c’è
un mondo portatore di una verità che mette in discussione le sue certezze consolidate in merito
alla supposta superiorità del mondo occidentale sugli altri.
Qualche volta capita che questo stesso lettore venga sconvolto al punto da avviare un percorso di
approfondimento di quel mondo nuovo ai suoi occhi. Comincia così a leggere altre cose
sull’argomento, si appassiona, magari si indigna pure e comincia così a parlarne ad amici e
parenti che lo guardano increduli, opponendogli argomenti e opinioni frutto di un sentito dire
generico, assorbito acriticamente.
Ma perché in natura esistono sia questo lettore preso di sorpresa sia questo oppositore dalle
opinioni fragili? Esistono perché sono stati anche loro formati da una narrazione, sbilanciata sul
versante occidentale, che sin dai tempi antichi della riflessione filosofica ha sostenuto, e continua
a sostenere, l’idea del luogo lontano, ameno, abitato da selvaggi filosoficamente immaturi o
inconsapevoli. Niente di più falso, e non lo dico io ma illustri studiosi di antropologia di cui mi
piacerebbe parlare in articoli futuri.
Quando ci si imbatte nei romanzi di Chimamanda Ngozi Adichie, si incontrano donne nere forti,
le cui storie personali servono all’autrice per raccontare un aspetto misconosciuto dell’Africa,
ovvero le conseguenze psicologiche e sociali dell’eredità nefasta del colonialismo. La scrittrice
nigeriana si interesse alla voglia di molti colonizzati di somigliare ai colonizzatori. Questo è un
aspetto cruciale delle sue storie, un tema che affronta con maestria attraverso un’analisi
approfondita e una rappresentazione vivida dei comportamenti di queste persone, che, talvolta in
modo persino violento, cercano con orgoglio di somigliare agli statunitensi, nel tentativo di
essere, se possibile, ancora più occidentali degli stessi americani. Un fenomeno molto diffuso
anche in Nigeria, che la scrittrice racconta mettendo in gioco le sue stesse esperienze familiari,
sebbene trasfigurate in forma narrativa. Tale fenomeno anomalo che difficilmente compare nei
libri di storia, anche in quelli che contro il colonialismo si sono sempre schierati, è frutto

anch’esso di quell’unica storia raccontata dall’Occidente sull’Occidente e a cui tutto il mondo ha
finito con il credere. Ecco perché tutti coloro che vedono nella scrittura un mezzo di espressione
elettivo devono svincolarsi da quelle storie che appiattiscono le diversità, che omologano e che
risultano l’ennesima riproposizione del già conosciuto, del già detto. Emanciparsi da qualcosa che
ci ha nutrito per tutta la vita non è però strada semplice da perseguire. Io stesso ricado negli stessi
schemi, quasi inavvertitamente, salvo poi, con successive riletture e riscritture, intervenire sui
miei testi per depurarli.
Il problema dell’unica storia non riguarda solo il colonialismo, che continua, sotto mentite spoglie,
a generare colonizzati. Il problema dell’unica storia riguarda anche il modo in cui adesso si tende
a raccontare il cambiamento climatico in letteratura, ma anche nel cinema. Leggiamo spesso,
troppo spesso ormai, romanzi che affrontano la questione con racconti distopici, spesso
fantascientifici, tutti impegnati a raccontare la vita dell’uomo durante la catastrofe o
nell’immediato post. Pochissimi autori invece raccontano della vita che le società umane
potrebbero condurre molto dopo la catastrofe, quando la natura ha ritrovato un suo equilibrio e
l’umanità ha ridimensionato parecchio la sua biomassa. Lo ha fatto nei suoi romanzi Margaret
Atwood, ma lei era scrittrice inarrivabile, davvero consapevole di dover raccontare storie nuove,
non il solito romanzo in cui compare l’uomo contemporaneo alle prese con le sue nevrosi derivate
dalla sua identità egocentrica, ma storie che possano contribuire a far crescere tra gli umani
(quelli residui, i sopravvissuti per intenderci), una consapevolezza nuova in merito al rapporto
solidale che l’essere umano dovrebbe intrattenere con il non-umano e che non è stato in grado di
instaurare negli ultimi cinque secoli almeno.
La costruzione di storie che raccontino la vita dopo il collasso, quelle su cui cerco di lavorare
anche io con grande sforzo e scarsi risultati, ha due benefici. Il primo riguarda la qualità dei
romanzi. Quando si tratta il vasto argomento del cambiamento climatico all’interno di un romanzo
gli autori tendono troppo spesso, purtroppo, a ripiegare sul romanzo di genere, solitamente quello
distopico o scifi. Questa scelta però spesso produce opere di bassa qualità a causa della necessità
di intrattenere il lettore con un testo avvincente, piuttosto che farlo riflettere sul suo ruolo e le sue
responsabilità in questo affare globale che è il climate change. Lavoro che svolge di solito la
letteratura, quella alta, impegnata e impegantiva.
L’altro vantaggio è decisamente più importante.
Narrare di un tempo dopo la catastrofe climatica, ecologica, economica e sociale verso cui
andiamo, un tempo in cui le società residue si rivelino capaci di riconnettersi con il non-umano,
trovando piacere in questo nuovo dialogo paritetico con gli aspetti che una volta si definivano
semplicisticamente “natura”, non può che fare bene a noi che siamo ancora in vita. Il beneficio di
una storia così costruita, positiva e propositiva, deriva dalla sua capacità di farci intravedere, da
qualche parte là oltre il collasso, la possibilità di essere felici, anche senza petrolio, senza
automobili e senza cellulari.

Mauro Li Vigni

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