Il barattolo

Con implacabile precisione, il petulante gracchiare della sveglia interruppe il sonno residuo che gli rimaneva, sospeso come una goccia d’acqua sul bordo d’una foglia che non si risolve ad arrendersi alle lusinghe della gravità. 

Si alzò, maledicendo se stesso per aver lasciato che quel perfido congegno rimanesse attivo anche la domenica mattina.

“Ma poi”, pensò, “a quale scopo aveva programmato quell’aggeggio che in genere lo risvegliava quando lui era già desto da tempo?” Forse era la necessità di scandire un tempo uniforme e vano con la prevedibilità irritante di un segno irriducibile, di un invito ineludibile.

Aprí la porta a vetri che si affacciava sulla baia e un refolo d’aria umida e salmastra lo investí. L’universo che lo circondava appariva grigio come l’anima di un ergastolano, senza colore né contrasto, incapace di provare lo scampolo d’un desiderio, il brivido di un imprevisto, di una impossibile evasione.

“È meglio così” pensò, quasi godendo della corrispondenza tra la stagione monocroma alla quale il suo animo si era da tempo abbandonato e la vista uniforme e cinerea che ammantava il palcoscenico del mondo.

Su uno scoglio appena affiorante, una garzetta intirizzita sfidava le raffiche, come a far da vedetta per avvertire il mondo del sopraggiungere di chissà quale incredibile novità proveniente dall’orizzonte opaco. Ma nessuna linea pareva  distinguere il cielo dalla distesa delle acque: un unico irriducibile grigiore incombeva sul creato, che sembrava destinato ad una spietata eternità. 

Lasciò che l’aria invadesse la stanza, poggiandosi sulla polvere stratificata, avida di quella umidità che lentamente l’avrebbe tramutata in uno strato opaco e colloso, e che nessuno avrebbe provato a rimuovere. 

Scorse gli scaffali della biblioteca, nei quali innumerevoli volumi si ammassavano senza altro ordine che quello imposto da diverse contingenze. A volte, ciò derivava dalla casualità emersa da una impellente consultazione notturna, che avrebbe lasciato a tempo indeterminato l’opera, appena strappata dalla quiete della scansia, su un comodino o accanto al divano o in altre più improbabili collocazioni. In altre circostanze, il caso aveva origine dall’imprevisto zelo stimolato dall’acquisto di un nuovo titolo, attorno al quale si sarebbero radunati come affiatati commilitoni testi di natura simile, quasi che la prossimità potesse moltiplicare l’efficacia del loro contenuto, e che ben presto sarebbero tornati nell’oblio,  lasciando flebili ma permanenti tracce nella memoria.

Si chiedeva spesso che fine avrebbero fatto tutti quei libri, dopo la sua uscita di scena. Alcuni sarebbero transitati su anonime bancarelle, in attesa di essere raccattati da una mano caritatevole, incuriosita dalle note a margine tracciate da uno sconosciuto. Altri avrebbero trovato posto nella libreria di qualche familiare, per rimanervi in mostra perenne, nella vana attesa di sentire il tocco d’una mano disposta a sfogliarne un’ultima volta le pagine ingiallite, che da gran tempo avevano smarrito l’amabile effluvio della carta.

Molti, infine, avrebbero concluso il loro tragitto terreno nei grigi bidoni della raccolta differenziata, in compagnia di indesiderabili compagni di viaggio: agende fitte di impegni dimenticati, calendari illustrati, pieghevoli ancora intonsi, quotidiani e riviste colmi di vanità, scatole di biscotti, resti di imballi e, talora, residui archeologici come cartine geografiche, cartoline illustrate e lettere di amori dimenticati.

In quel silenzioso territorio di parole, il  barattolo di caffè giaceva come un inatteso reperto rinvenuto in un antico sepolcro. Lo raccolse, facendo attenzione a non turbare l’equilibrio dei volumi, che l’improvvisa cavità generata da quel prelievo rischiava di compromettere. Lo aprì, svitando il coperchio metallico che emise un rugginoso cigolio e pose lo sguardo al suo interno. 

Vi era, sul fondo della lattina che aveva smarrito da tempo il delizioso aroma di tostatura dei semi di arabica, un groviglio di pensieri che il tempo aveva provveduto, con lenta mestizia, a solidificare in esili filamenti di differenti colori, in una esigua e inestricabile matassa policroma. Erano fili di un tenue azzurro, emerso da chissà quale memoria di cieli tersi e di desideri liberi, o quelli di una perduta speranza, nei quali il verde muschio d’un tempo aveva virato verso il colore marcito di un remoto sottobosco; e frammisti a lievi filamenti grigi, testimoni di antiche sconfitte, impercettibili intrecci di un rosso cupo raccontavano amori smarriti, o impossibili, o svaniti come rugiada sorpresa dall’impietoso impatto con la mitezza del mattino.

Osservò con occhio disincantato gli arabeschi che in quella geografia avevano riassunto la sua esistenza. Si augurava che ciò che rimaneva di essa non sarebbe finito nel fondo di un sepolcro o nell’ultima fiammata d’un forno. Era consapevole di quanto fosse tenue la chimera che quelle fragili testimonianze, la cui interpretazione era destinata a rimanere oscura alla distrazione del  mondo, potesse essere ritrovata e compresa da un animo sensibile e affine, in grado di leggere, nelle volute eteree di quelle fibre, le storie che egli non aveva saputo raccontare e che si erano, inaspettatamente e grazie ad un ignoto prodigio, materializzate in lunghi filati di frasi compiute, in volute contorte di parole pronte ad una nuova tessitura, ad un rinnovato esordio nel mondo.

Richiuse il barattolo, avendo cura che l’avvitatura fosse completa e lo rimise al posto che esso stesso, un tempo, gli aveva suggerito.

Prossimo alla costa, un branco di alici pascolava inquieto, in balia della corrente e alcune, forse per catturare un po’ d’aria, forse per la curiosità di vedere il mondo da una prospettiva inconsueta, saltava fuori dall’acqua. Una di esse, particolarmente inquieta, continuava a sporgersi verso l’abisso incorporeo dell’atmosfera.

L’ultima cosa che vide fu il becco impietoso d’un gabbiano, che la ghermiva senza misericordia.

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