Sulla poesia crepuscolare
La poesia crepuscolare nasce dalla noia e dall’orrore del quotidiano. In questo senso essa manca di una lezione ascensionale e di un progetto comunemente assunto. Eppure le ragioni dell’affinità prevalgono sulle ragioni della differenza: i crepuscolari, con la loro dottrina sulla necrosi sociale in favore di un soggettivismo morente, costituiscono un movimento riducibile a schema la cui unità, sotto il profilo critico, giunge a valere su esperienze assai più tarde, come per esempio la poesia di Montale.
Quando Luciano Anceschi afferma che i crepuscolari respingono «ogni galateo del vivere inimitabile, tutta la eroica fenomenologia degli istinti e, infine, la preziosa gioielleria dei sensi e della letteratura illustre», si riferisce al processo di desacralizzazione di quel museo letterario oramai consunto, che essi oltrepassano, compiendo una rivoluzione poetica di grande modernità, più ancora di quel futurismo che, nel culto della macchina, finiva per riproporre un modello epigonico di esistenza inimitabile e dannunziana.
La poesia crepuscolare, che nasce con la prima guerra mondiale, opera una frattura sostanziale col mondo dei vecchi valori, proponendo l’inerzia putrescente di un universo concentrazionario. Con loro nasce la lirica moderna, fondata sulla decantazione scettica del quotidiano: se ogni culto genera una poetica, la sua assenza ha significato per i crepuscolari un rifiuto severo della retorica concettuale in favore della significazione lirica, con un senso profondissimo dell’irrazionale e un’inquietudine semantica che agisce all’interno del codice linguistico, a erosione della sua stessa struttura; una poetica della crisi con un’attitudine al racconto e il rifiuto del carattere dionisiaco della poesia come mito di fondazione del mondo.
I crepuscolari si rifugiano nell’esperienza chiaroscurata del quotidiano come momento ontologico, nella consunzione e nello sfinimento morale di vicende anonime e di soggetti privi d’interesse: cimiteri, clausure conventuali, fiori di carta, vecchi salotti, giovani ammalati, beghine smunte, poverissime suore, aromi stantii, malinconici seminari, esistenze amare e tragiche. È il lume crepuscolare dell’agonia in una disperazione che non ha nulla dell’ebbrezza panica di D’Annunzio o del vorticismo concitato di Marinetti. A D’Annunzio – che attesta tragicamente l’impossibilità del recupero di una realtà verginale e primitiva e cede al racconto del quotidiano per la sconfitta di una simbiosi autentica tra uomo e natura, nei momenti in cui il poeta si arrende al languore per la malinconia sanatoriale e l’intimità di quel canto mesto e adombrato che culmina nel Poema paradisiaco – i crepuscolari saranno in qualche modo vicini.
Ma alle origini della loro poesia si pongono i modelli minori dell’ottocento italiano e francese, quei decadenti che giungono alla loro estenuazione proprio con gli scapigliati; e, soprattutto, Giovanni Pascoli. L’indole familiare del poeta, il mondo dimesso della provincia, il gusto per la parola antiretorica che si esprime per mezzo del frammento lirico, quei dettagli minimi che per sineddoche pronunciano un intero mondo, tutto ciò che nel poeta si annuncia con scabra familiarità diventa luogo mimetico del paesaggio crepuscolare. Ma ciò che piuttosto e più profondamente lo allontana dai crepuscolari è il senso ultimo della rappresentazione, la sua ragione lirica: mentre Pascoli evoca il paesaggio dell’anima e definisce la realtà come mera trasfigurazione del proprio io, i crepuscolari raccontano la sostanza impersonale e tragica delle cose: narcisisticamente aggettivata, ma non per metafora.
Nella contemplazione di questo universo non c’è alcuna quiete; di più, la coscienza di una speranza impossibile: facendo una dialettica del negativo, che declina sul quotidiano il tema di un male mitico della realtà, l’orizzonte lirico crepuscolare preannuncia la coscienza poetica dell’esperienza contemporanea, per questo suo mondo che semplicemente è, con i mezzi di un nichilismo spezzato e stanco.
Beniamino Biondi