Il Profumo
Per Ginevra sua madre era una specie di profumo. Non ricordava neanche come si chiamasse, era una boccetta dalle forme femminili che abitava sul mobiletto in legno del bagno di marmo rosa. Ginevra entrava di soppiatto, quando nessuno la vedeva, e se ne spruzzava sempre un po’ addosso. Le piaceva pensare che fosse la pelle di sua madre Paola. Ma Paola, schiava delle allucinazioni e di continue nevrosi, era un’altra cosa: buio e tristezza. E trascinava chiunque la seguisse verso un inferno privo di emozioni. La sua vita la passava sul divano di casa senza il conforto di un raggio di sole, né di voci amiche. La tv sempre accesa, lo sguardo smarrito altrove.
Ginevra era cresciuta al riparo da questo male di vivere grazie a suo padre e ai nonni, che avevano fatto di tutto per offrirle un porto sicuro. Con loro si sentiva amata. Da Paola no.
«La mamma non mi vuole bene. Non ama nessuno. Perché hai sposato una donna così?», aveva detto più di una volta Ginevra a suo padre.
Lui si difendeva come poteva: «Si commettono tanti errori nella vita, Ginevra, ma si capiscono troppo tardi. Cosa avrei dovuto fare? Lasciare te e tuo fratello Riccardo nelle mani di una donna così? Credi che non sappia chi è tua madre?»
«Io non ho avuto una madre. Sono solo figlia tua».
Ginevra lo ricordava sempre a suo padre. E glielo fece notare anche quando il male di vivere di Paola si fece insopportabile. Paola ormai era fuori di sé. Prima aveva buttato suo marito fuori di casa, poi s’era messa in testa di sposare Gino, il suo primo amore. L’uomo che l’aveva sedotta e tradita con l’imprenditrice piena di soldi e dalla quale aveva avuto una figlia. Era stato allora che nella testa di Paola s’era rotto qualcosa. Quella bambina avrebbe dovuto essere sua. Sua e del suo grande amore. Ma le cose erano andate diversamente.
Gino aveva sposato l’imprenditrice dopo averla messa incinta. Era successo e basta e a quel punto lui non poteva tirarsi indietro. Anche perché il futuro suocero l’aveva minacciato più di una volta. E poi avere una figlia era sempre stato il suo sogno.
«Meglio una figlia femmina che cento maschi».
Gino aveva perso il conto di quante volte l’aveva ripetuto a se stesso. Forse perché temeva che un figlio maschio potesse crescere come lui. Bastardo, fedifrago, amante del lusso e della bella vita. Con una figlia sarebbe stato tutto più semplice: avrebbe aperto le gambe e prima o poi uno ricco l’avrebbe incastrato. Del resto, Gino aveva ereditato una fortuna dal padre e non gliene importava nulla di lavorare. Preferiva vivere di rendita. L’imprenditrice lo amava e, forse, s’era fatta mettere incinta a bella posta. Così lui sarebbe stato solo suo. E ciao ciao Paola.
Già, Paola e i suoi sogni d’amore. Invaghirsi di un uomo senz’arte né parte. Fino a quel momento non le era mai stato permesso. Aveva preso così tante botte, una volta, che era finita pure in ospedale. I suoi genitori erano stati irremovibili.
«Piuttosto ti ammazziamo di botte, ma tu sposi un uomo per bene.”
Gli anni passavano. E Paola stava sempre peggio. Così venne rinchiusa in un collegio, lontano dal suo paese, con la scusa di un pezzo di carta da metterle in tasca. Ma tanto lo sapevano tutti che era l’unico modo per toglierle quell’amore sciagurato dalla testa. Un amore negato da tutti. Soprattutto da Gino e dall’imprenditrice, che gli aveva regalato un’incantevole bimba con gli occhi neri.
Paola aveva provato a incassare, ma s’era lentamente ammalata. E alla fine s’era sposata pure lei, per inerzia, con un magistrato in carriera e bello da togliere il fiato. Esattamente ciò che i suoi genitori desideravano per lei: un uomo che lavorasse duramente e portasse tanti soldi a casa. Ed era un padre dolcissimo, stimato da tutti. Tranne che da Paola. Paola con Vittorio, di figli ne aveva messi al mondo due. Ginevra e Riccardo. Ma non era felice. Entrambe le gravidanze le avevano lasciato la ferita mai ricucita di una depressione profondissima. Un calvario che ormai era routine: ansiolitici e antidepressivi per sedare gli attacchi di panico, crisi, pianti notturni. E i lunghi pomeriggi al buio, sul divano. Chi ne soffriva di più era sua figlia Ginevra. Mai una carezza, nessun abbraccio, di regali nemmeno l’ombra. Solo singhiozzi, farmaci, il buio di una madre che non sapeva amare.
Ma c’era anche quel profumo.
Ed era successo tutto per caso. Un giorno Ginevra era entrata in una profumeria e s’era messa a cercare quella essenza. Finché trovò il profumo che cercava, quello di sua madre. Una volta rientrata a casa, aveva posato la boccetta sulla mensola del bagno ed era rimasta a guardarla a lungo. Due lacrime e un amaro sorriso, sempre con quell’odore di gelsomino addosso.
Ginevra ricordava benissimo il giorno in cui Paola aveva convocato la famiglia nel grande salone di casa per dire che voleva il divorzio. Riccardo si era limitato a scrollare le spalle. In fondo era cresciuto tra moto, fidanzate e serate in discoteca. Aveva un buon lavoro e una donna da sposare, gli importava poco che i suoi genitori, ormai “anziani” si separassero. Per Ginevra invece era stato un colpo durissimo. Senza suo padre, e con i nonni ormai avanti negli anni e incapaci di arginare il male di vivere di Paola, sarebbe stata lei la vittima da sacrificare.
Gino intanto era rimasto solo. L’imprenditrice era morta in un incidente stradale, lasciandolo immensamente ricco e libero di ricominciare con una figlia che ormai viveva in Giappone. Adesso per Paola non c’erano più ostacoli o quasi: prima bisognava far fuori il marito mai amato e Ginevra. E così fece.
Ginevra capì che nella casa di famiglia sarebbe rimasta sola. Riccardo aveva la sua vita. Suo nonno era prigioniero in un letto, per una malattia irreversibile, con la moglie di una vita a fargli da infermiera a tempo pieno. Paola, egoista e non curante di nulla, già amoreggiava ogni notte al telefono con Gino. Per Ginevra l’unica soluzione era fare le valigie. Sarebbe andata da suo padre, almeno finché entrambi non avessero trovato una soluzione. Portò con sé il profumo che una notte aveva rubato dal bagno rosa e poche altre cose.
«Mamma, io vado da papà, è giusto che tu riprenda la vita che ti hanno negata. Ti auguro ogni bene».
Suo padre l’aspettava.
Paola iniziò a convivere con Gino, poi lo sposò. Al matrimonio, organizzato in pompa magna, si presentò Ginevra, ma non Riccardo. Paola lo perdonò, ma in compenso continuò a odiare Ginevra. L’aveva detestata fin da piccola perché era come il suo primo marito. E ora continuava a farlo perché incarnava quel modello di donna che lei non era mai riuscita ad essere.
Ad accomunare madre e figlia era solo quel profumo. E il giorno delle seconde nozze se l’erano messo addosso entrambe.
A Paola non dispiacque affatto che il matrimonio di Ginevra naufragasse in pochi anni. Voleva prendersi Giorgia, la figlia di sua figlia, per riempire il vuoto di una bambina che Gino non le aveva potuto dare. Sapeva di essere troppo anziana per averne un’altra. E poi Ginevra era una donna in carriera, piena di impegni, ma troppo esile e cagionevole. Anche su di lei, s’era posata l’ombra della malattia, che le divorava dall’interno le fibre, impendendole una vita normale. Un fulmine a ciel sereno che aveva distrutto i suoi sogni e le fondamenta di una famiglia appena abbozzata. A casa i soldi non bastavano mai, Ginevra e Marco litigavano di continuo, finché lei decise di mollarlo. E in più continuava a peggiorare.
Fu allora che Paola decise di intervenire.
«Lascia Giorgia a me. Noi siamo i suoi nonni, le vogliamo bene, ce ne prenderemo cura. Tu sei una donna ammalata, non puoi farcela da sola».
Ginevra, pur a malincuore, si fidò. Ma non immaginava che Giorgia l’avrebbe persa. E per chissà quanto.
Paola voleva ricostruire il nido che le era stato negato dal destino, dalle legnate a sangue, dal collegio, dall’imprenditrice, dal primo matrimonio andato male. E nulla gliel’avrebbe impedito. Nemmeno sua figlia. Certo, Giorgia non l’aveva partorita. Ma ora era proprio Ginevra a offrirgliela su un piatto d’argento. Sarebbero stati solo lei, Gino e la nipotina che considerava sua.
Quando Ginevra capì l’inganno era troppo tardi. Si andò a processo e Paola si schierò contro di lei. E Giorgia venne affidata a Marco. A consolare Ginevra era rimasto solo l’amore di suo padre, ma anche la promessa di raccontare un giorno a sua figlia la verità.
Finché Paola morì. E venne il tempo di tirar fuori la storia tenuta segreta per decenni. Per farlo, Ginevra prese il profumo che le ricordava tanto sua madre e riempì la casa con quell’odore sacro e doloroso, e tutte le parole del mondo che sul foglio bianco divennero carne viva. Voleva, doveva scrivere, raccontare la verità. Lo doveva a se stessa ma anche a sua figlia. Chiudere il cerchio. Provare a perdonare. Chissà forse un giorno ci sarebbe anche riuscita.
Bia Cusumano
Una storia triste. Raccontata con dovizia di particolari che solo un raffinato scrittore può descrivere. Ho apprezzato la qualità di scrittura e la capacità di sapere animate il racconto