Ti conosco, mascherina
Aveva un nome che non s’era mai sentito prima; ci volle del tempo perché si capisse che fosse un nome.
Nessuno, lì, aveva mai unito vocali, consonanti ed accenti per formare quel suono insolito e strano col quale in tanti, per soggezione e timore, non la chiamavano neanche, ovviando con appellativi diversi, vezzeggiativi o diminuitivi d’uso comune o, addirittura, con semplici e ordinari richiami vocali.
Solo un ragazzo, quello del terzo banco centrale, lo pronunciava con evidente soddisfazione, sfoggiando un’inconsueta e disinvolta padronanza dei toni nasali, evitando però, per vezzo o per dispetto, l’accento sull’ultima vocale cui lei teneva tanto.
Aveva capelli di un colore che mescolava il biondo e il rosso, con riflessi cangianti a seconda delle ore del giorno, delle stagioni dell’anno e dei vestiti che portava.
Nessuno aveva prima veduto un colore simile da quelle parti, dove il castano – chiaro o scuro che fosse – poteva degradare su mille sfumature, rimanendo pur sempre una variazione e gradazione del medesimo tono.
Aveva occhi ridenti, grandi, liquidi e profondi; identici a quelli del nonno paterno che in gioventù, e non solo, ne fece un uso generoso e improprio con numerose pazienti, dame di compagnia e governanti, scampando per abilità e rispetto, a gelosie più o meno accese e pericolose.
Aveva libri nuovi e rilegati in pelle, e quaderni con copertine cartonate nere col dorso e gli angoli rafforzati e con fogli bianchi, non grigi come quelli che si usavano allora.
Aveva tante cose diverse dagli altri, e molte che gli altri non avevano nemmeno e di cui non seppero mai intuire l’utilità.
Non aveva sorelle o fratelli, al contrario di quanto era riscontrabile e comune, con dosaggi plurimi e abbondanti, fra le famiglie dei suoi compagni.
La sua casa, tuttavia, era esageratamente affollata da nonne, prozie, zie, gatte e cameriere; qui elencate nell’ordine d’importanza a loro riconosciuta.
Un mondo tutto al femminile, ad eccezione di suo padre, unica presenza maschile che, peraltro – per tante ovvie e buone ragioni – frequentava poco la dimora e in orari o periodi nei quali gli altri occupanti dormivano o andavano in vacanza.
A parte tutto ciò, in cui ella si ritrovò per meriti o colpe non sue, per il resto era una ragazza come le altre.
Anzi, c’era un qualcosa (…più di un qualcosa) a renderla sorprendentemente diversa; la sua straordinaria e inaspettata normalità, nonostante la più estrema e assoluta diversità che la circondava.
Una normalità che si manifestava quotidianamente nei comportamenti e negli atteggiamenti che assumeva, nelle circostanze che ricercatamente non si faceva scappare per infrangere protocolli e regole che il rigido matriarcato le imponeva.
Come la mattina, quando arrivava da sola ansimante e scapigliata, sfuggendo ad una delle cameriere che avrebbe dovuto condurla a scuola; o la domenica, quando andava con le nonne alle messe meno mondane e frequentate, evitando di accompagnare, al pomeriggio, la madre e le zie, con scuse di una fantasia inesauribile e di un’insindacabile inoppugnabilità.
E in tante altri rituali che avrebbe dovuto rispettare ogni giorno, si aprivano crepe e squarci che, col tempo, ne rendevano evanescenti e blandi gli obblighi correlati.
Era naturalmente e curiosamente attratta dal contesto che la circondava e l’altezzoso distacco che avrebbe dovuto mantenere, qualora ci fosse mai stato, giorno dopo giorno evaporava sempre più.
Nei giorni di Carnevale del suo diciassettesimo anno d’età, alle libertà conquistate con battaglie sottili e sommerse, se ne aggiunse una, inaspettata e gratuita.
La notte del martedì grasso era usanza diffusa fra molte famiglie, di ceto e censo diverso, organizzare feste e banchetti, aprendo le porte di casa a chiunque girasse per strada, purché mascherato.
Per anni la sua casa aveva ospitato le feste più belle e ambite e i banchetti più ricchi e ricercati, ma il tutto si era interrotto alla morte improvvisa del nonno, allorché iniziò un decennio di lutto stretto e assoluto.
E di tutto ciò lei, all’epoca troppo piccola, aveva solo un vago e confuso ricordo, nè i racconti della famiglia, in quegli anni, rievocarono più quei momenti, quasi fosse ingiusto e sacrilego il solo parlarne.
Quell’anno era l’undicesimo anno dal trapasso, e le zie, che avevano subito rassegnate e devote, (insieme a tanti altri effetti collaterali) con un dolore quasi pari a quello della perdita del padre, quel decennale oscurantismo, riottennero il permesso di riprendere la tradizione.
E per legittimarne ancor di più il ripristino, benevolmente ne estesero la fruizione alla giovane nipote.
Si girava per le strade a gruppi, con vestiti riciclati e riadattati, scovati in guardaroba intarlati e senza età che odoravano di lavanda e naftalina, mescolandosi a compagnie cui, per presunte e poco attendibili intuizioni, si attribuivano identità che spesso si rivelavano infondate.
Le maschere non parlavano, avevano movenze artefatte, camuffavano i generi e il sesso sotto apparenze posticce, avvolgendo tutto in un alone di vaghezza indistinta e sospesa.
Si entrava nelle case attratti dal flusso e dalle musiche che risuonavano da dentro, si ballava e si riusciva, a volte seguiti da chi per qualche gesto o ammiccamento, vero o presunto, si era ritenuto agganciato.
Era in quella notte che si consumavano le prime esperienze di svezzamento adolescenziale, sotto le più pudiche e velate coperture di travestimenti e mascheramenti che celavano comunque un segno distintivo, identificabile solo da chi ne conosceva il codice e ne percepiva la sottile e velata allusione.
Fu quella sera che lei, saccheggiando armadi e cassettoni combinò un travestimento perfetto con merletti e pizzi d’oltralpe, appartenuti ad una bisnonna angioina (da cui traeva origine quel nome tanto strano), stivaletti, sciarpe e scialli delle prozie, cappellino e ventaglio di seta della madre, e una maschera di cera e porcellana, comprata chissà dove, e da chissà chi.
Uscì di casa con le zie che, più cercavano di dissimulare la loro identità, più vennero immediatamente da tutti riconosciute, già dai primi passi maldestramente ancheggiati sul lastricato del corso.
Così, al primo angolo svicolò, senza che nessuno si accorgesse di lei e girò per ore entrando e uscendo da feste e banchetti.
Vagò indisturbata per piazze e vicoli, entrò in case che odoravano di pecorini stagionati e dell’agrodolce di caponate in conserva, e in altre pervase dai profumi talcati e dalle essenze di colonie agrumate, ballò da sola in saloni affrescati e in cantine dai sottoscala stretti e angusti.
Fino a quando sulle note lontane di una fisarmonica roca e di una chitarra scordata, un’ombra le si avvicinò e guardandola attraverso le fessure di una maschera nera la chiamò per nome… senza accento sull’ultima vocale.
Lei sorrise, non vista, sotto la sua maschera di cera e porcellana, dietro il suo ventaglio di seta…e senza una parola, si lasciò prendere per mano.
Giacomo Paruta