La notte dell’Antimafia

Ci sono storie che per anni ti chiedono di essere raccontate. E io che non sono uno scrittore ma soltanto uno che scrive – c’è una bella differenza – ho sempre avuto una passione per le storie. Quelle minime a volte, che nascondono spesso misteri apparentemente inestricabili. Altre, che in un modo o nell’altro hanno segnato la mia esistenza. 

Prendiamo le radio e le tv private, per esempio, con le quale sono cresciuto sognando, un giorno, di poter essere dall’altra parte del video o del transistor. Avrò avuto una decina di anni quando sono apparse per la prima volta, ricordo a memoria titoli di programmi cult, nomi di speaker e conduttori palermitani che mi hanno accompagnato per anni durante i pomeriggi di studio con mia madre che non si dava pace: “Ma come si fa a fare i compiti con la musica sempre accesa?”. Si fa, alla fine si è arresa. 

E poi le prostitute, le “pulle”, sì proprio loro. Ci si può appassionare alle angosce di povere donne costrette dalla fame a vendere il proprio corpo? E, soprattutto, si può raccontare la storia di una città – millenni di storia – attraverso le disavventure delle sue meretrici? Alla fine ci ho provato e dopo “Prove tecniche di trasmissione”, dedicato all’epopea dell’emittenza privata palermitana, ho scritto “Puellae”, una raccolta di racconti dalle Veneri Ericine del Duecento dopo Cristo alle escort dei giorni nostri. 

Che cosa c’entrasse tutto questo con Nino Velio Sprio, il primo e unico serial killer della storia della mia città, non l’ho mai capito. Eppure anche questa era una vicenda che mi chiamava, quasi mi supplicava di essere tirata fuori dall’oblio. Un caso di cronaca nera che più nera non si può che dovevo scrivere. Quel libro si intitolava “Il killer dell’ufficio accanto” e qualche mese fa è diventato anche un racconto breve per una nuova collana di Zolfo Editore dedicata ai cosiddetti “true crime”. 

E poi le imprese dei siciliani d’America, i tanti incontri con personaggi straordinari nei miei viaggi a New York – devo tornarci ogni anno altrimenti mi manca qualcosa – e un libello al quale sono molto legato, “Dall’altra parte della luna” che mi ha regalato un’esperienza più unica che rara: tenere dei corsi sull’immigrazione nelle università del Texas. Io, che mi sono laureato con un lievissimo ritardo di trent’anni sulla tabella di marcia, che facevo il prof negli Stati Uniti. Da non crederci.  

Ho scritto un lungo racconto sulla storia del mare di Palermo per un bellissimo saggio fotografico curato da Kalòs, un altro su un libro che non ha avuto la fortuna che meritava, “800A” che non credo sia un acronimo da spiegare, e poi mi sono imbattuto in un dramma che riguardava un mio collega, un giornalista calabrese, morto di precariato e tradito dal mestiere per il quale aveva consacrato la sua vita. Si chiamava Alessandro Bozzo quel ragazzo, aveva appena compiuto 40 anni, il suo editore lo aveva costretto a licenziarsi con la promessa di essere nuovamente assunto ma a tempo determinato e a metà dello stipendio. O così o niente. Ha retto per un anno, poi si è sparato un colpo di pistola alla tempia. Lasciando la moglie, una figlia di appena 4 anni e tanti amici che ancora si chiedono come possa essere successo. Una storia, anche questa, che “dovevo” scrivere. Perché è quella di tanti di noi che continuano a credere nel giornalismo malgrado paghe infami, pressioni, minacce e una vita d’inferno. “Quattro centesimi a riga” è diventato anche un monologo teatrale che abbiamo portato in giro per tutta l’Italia insieme a due immensi artisti come Salvo Piparo e Michele Piccione. Un’emozione davvero indescrivibile.

Raccontare piccole-grandi vicende umane. In Sicilia, certo, comunque nel Mezzogiorno d’Italia. Alla fine è quello che ho sempre fatto. E anche se radio e tv sono lontane da serial killer e “belle di giorno”, il mare negato non c’entri un tubo con il precariato e l’emigrazione, io un filo tra tutto quello che ho scritto riesco a scorgerlo. 

E quindi trovo che “La notte dell’Antimafia” – il mio ultimo romanzo che ho il piacere di presentare a Palermo il 19 maggio al Palazzo del Poeta nell’ambito della rassegna letteraria “Un tè con l’autore” – rientri perfettamente nella linea tracciata, forse solo nella mia testa, dalle storie che andavano raccontate. Sono almeno otto o nove anni che sento parlare di questa vicenda giudiziaria. La gestione dissennata di una sezione fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata, che dalle nostre parti si chiama mafia, nel cuore del palazzo di giustizia. Di Palermo, ovviamente, tanto per cambiare. Mi ha colpito immediatamente, non riuscivo a credere che un luogo che avevo frequentato a lungo, quando facevo il cronista in Sicilia, potesse essere precipitato a livelli così infimi. Con il senno di poi, tra l’altro,

ho capito che ancora non avevo visto nulla. 

Dello scandalo nelle Misure di prevenzione, quelle che sequestrano i beni ai mafiosi – ma anche a quelli che sono soltanto sospettati di esserlo e magari, alla fine, non lo sono affatto – hanno scritto tanto i giornali. E le tv hanno dedicato speciali e trasmissioni. Perché aggiungere un libro? Me lo sono chiesto tante volte e, alla fine, credo che per me fosse importante mettere a confronto due storie questa volta: quella della zarina assetata di soldi e di potere che guidava quel pezzo di Stato come se fosse cosa sua, e quella di un imprenditore che fino a una calda sera d’estate era proprietario di un resort di lusso e firmava un vino premiato con tre stelle dal Gambero rosso e, poche ore dopo, era stato sbattuto in prima pagina con l’accusa più infamante per chi vive in Sicilia: essere amico e prestanome dei boss più pericolosi della Cupola. Di più, mi interessava raccontare tutto questo dal punto di vista di Gianfranco, il figlio di quell’imprenditore, un “ragazzo” della mia età che avevo conosciuto al liceo e che, dall’oggi al domani, era passato dai locali alla moda della città all’emarginazione sociale. A tre anni dall’arresto quell’imprenditore era stato assolto da tutte le accuse ma le sue aziende è riuscito a riaverle soltanto 3.875 giorni dopo. Se fate i conti sono poco meno di 11 anni. E a loro è andata pure bene: altri sono ancora in attesa, dopo 15 o addirittura 20 anni, e le loro aziende nel frattempo sono fallite per colpa di amministratori giudiziari poco scrupolosi, per usare un eufemismo. Uno scandalo che ha offuscato l’immagine dell’antimafia siciliana, già traballante per colpa di altre brutte storie di paladini della legalità che si erano rivelati al servizio delle cosche.  

Lo so, qualcuno dirà che tirar fuori le magagne di chi avrebbe dovuto combattere la criminalità e ha deviato dalla retta via possa diventare quasi un regalo ai mafiosi. Non sono d’accordo e provo a spiegare le mie ragioni: se c’è un’ottima legge che, però, nasconde qualche piccola falla, non va buttata la legge ma aggiustata quella falla. La legge che porta il nome di Pio La Torre, ucciso dalla mafia nel 1982 proprio per quell’intuizione, e cioè sottrarre ai boss la cosa a loro più cara, i “piccioli”, è un passo fondamentale nel contrasto a tutte le mafie. Per questo le Misure di prevenzione di alcuni tribunali di frontiera come Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Bari, andrebbero ulteriormente rafforzate con uomini e mezzi. Ma fino a quando sarà possibile, per dire, nominare lo stesso amministratore giudiziario per decine di beni sequestrati o si consente di tenere in stand by per anni aziende di persone assolte in Cassazione, il rischio che quello che è successo possa ripetersi rimarrà sempre. Anche perché poi quelle aziende falliscono e dietro un negozio, un panificio, una fabbrica ci sono decine o centinaia di vite umane, lavoratori che perdono il posto e un’economia, quella siciliana, sempre più alla canna del gas. 

A raccontare tutto questo si fa un favore alla criminalità? E basta trovare la solita “mela marcia” per pensare che poi tutto vada bene, madama la marchesa? Io, ovviamente, ho la mia risposta. Lascio a ognuno la sua. In ogni caso, se qualcuno la pensa diversamente, probabilmente aver scritto “La notte dell’Antimafia” non è stato tempo perso.   

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