Si torna a parlare di Haiku

La pubblicazione di Il pettirosso rosso haiku di Franca Alaimo, Andrea Castrovinci Zenna, Daita Martinez, Pietro Romano, Giuliano Ladolfi Editore ha segnato l’inizio di una discussione sullo haiku. A questo riguardo ho avuto la possibilità di intervistare il poeta Dante Maffia, molto noto in Giappone , al quale nel 2023 la città di Kioto ha intitolato un Premio letterario per gli haiku come riconoscimento della sua straordinaria composizione di haiku, circa 25.000, già pubblicati in trenta volumi. Riporto di seguito l’intervista e alcuni suoi haiku.

QUATTRO DOMANDE SUGLI HAIKU A DANTE MAFFIA

Dante Maffia, ormai è risaputo, sei onnivoro, ti sei tuffato con ardore nella poesia, nella narrativa, nel teatro e nella saggistica con un fervore che ha dell’incredibile se si pensa alle opere pubblicate. Tante, davvero tante. E sappiamo dell’accoglienza critica calorosa che hai ricevuto anche all’estero, anzi direi soprattutto all’estero. Ma da qualche anno la tua produzione si è rivolta con intensità alla scrittura degli haiku, questa misura poetica giapponese che anche in Italia si sta affermando.

Tu, Dante, come sei arrivato a conoscere e a frequentare gli haiku?

Ai tempi dell’Università, cioè oltre mezzo secolo addietro, ho fatto amicizia con un pittore giapponese, Hiroshi Nakaema, e fu lui che mi parlò di Matsuo Basho, poeta del seicento venerato come un santo e considerato il “sommo poeta” del Giappone.

Scriveva haiku, cioè componimenti nati in Giappone nel XVI secolo con una struttura molto semplice. Si compongono di tre versi, in totale, da 17 more secondo lo schema 5-7-5. Una mora è l’unità di misura della durata delle sillabe ed è differente da una sillaba, anche se spesso vengono messe sullo stesso piano. Una sillaba, in realtà, può contenere anche due more.

Gli haiku sono poesie che non sembrano tali e sembrano aforismi che non sono aforismi. Si tratta di una fiammata di sillabe che devono dire non dicendo e facendo sentire al lettore soprattutto ciò che non viene detto. Gli haiku, inizialmente raccontano l’emozione legata alle stagioni e alla precarietà dell’esistenza. Ma sono stato io, e mi è stato riconosciuto, a dare agli haiku un fiato più ampio, a concatenarli in storie, in piccoli romanzi. Dall’anno scorso a Kyoto esiste, lo dico con immenso orgoglio, il “Premio Dante Maffia per gli haiku”.

Ma come è nato questo tuo rapporto stretto con l’Oriente di cui tutti parlano?

Alcuni anni fa un piccolo gruppo di poeti italiani, tradotti in giapponese, fummo invitati a degli incontri con gli studenti di Kyoto e di Osaka organizzati dall’Associazione Junka Books. Durante un incontro uno studente mi attaccò dicendo che essendomi prestato a portare il “Vangelo Occidentale “in Giappone, che cosa credevo di ottenere non conoscendo la loro letteratura?

Si dà il caso che io per anni, lavorando in alcuni giornali e alla radio, ho recensito opere di giapponesi e quindi ho una buona dimestichezza con quegli autori e così misi a tacere il giovane che, devo dire, non ebbe difficoltà a scusarsi. Ma subito dopo si alzò una studentessa e mi disse che però sicuramente non sapevo neppure che cosa fosse un haiku, quindi non conoscevo la loro poesia.

Hiroshi, il pittore, mi aveva fatto leggere e rileggere molti haiku e così ne recitai, ho buona memoria per la poesia, molti a memoria. Anche la studentessa chiese scusa.

Ma ero rimasto un po’ irritato da quella piccola aggressione e così dissi alla traduttrice, Mariko Sumikura, che, essendo risentito volevo fare con loro una scommessa da “guappo” (apriti cielo per tradurre guappo), entro un anno avrei scritto diecimila haiku. Rumoreggiare infastidito e allora dissi: “Facciamo undicimila”. Ne ho scritti, e sono tutti tradotti, (trenta volumi) circa trentamila, senza mai ripetermi. Sono un mulo testardo, ho voluto strafare, perché mi viene spontaneo esprimermi in haiku. E’ un esercizio virtuoso che abituata a risparmiare concetti e parole, ma non funziona senza il coinvolgimento dell’anima. Infatti circolano in Italia centinaia di libri di haiku e quasi sempre si tratta di esercitazioni, di tentativi. Entrare nella dimensione spirituale e poetica del Giappone non è una semplice passeggiata.

Quello che dici è straordinario. Ma non bisogna avere una particolare attitudine per evitare che l’haiku non diventi di sapore occidentale o appena una imitazione?

Se si ha la dolcezza e l’abilità di non voler essere protagonista di ciò che si scrive, ma lasciare forza, energia, e bellezza alla parola nel suo farsi e disfarsi, l’atmosfera orientale resta intatta e ciò che si racconta, ciò che si racchiude nei versi si abbevera alla tradizione e non travalica e non assume sembianze europee o americane. E’ un esercizio in cui innanzi tutto bisogna avere rispetto di una condizione particolare in cui il fiato delle stagioni, quello dei colori, della musica e dell’amore sia improntato al fluire del profumo dei giardini di Kyoto, alla bellezza degli occhi delle ragazze, alla delicatezza delle azioni e delle emozioni. Dimenticare se stessi, insomma, e diventare un mandorlo in fiore, un pesco, una libellula. Non è una semplice battuta. Scrivere un haiku è apparentemente la cosa più facile di questo mondo, ma in realtà è difficilissimo, perché la “maniera” è pronta a fagocitare il dettato e renderlo verbalizzazione degli eventi e dei sentimenti. Un arcobaleno, in un haiku, deve essere capace di sciogliere i suoi colori senza perderne uno solo e senza disfare la sua forma; una farfalla deve saper essere tuono, tempesta e carezza.

Continui a scrivere haiku dopo avere vinto quella scommessa fatta agli studenti?

Sì, non ho mai smesso, anche per smentire un altro luogo comune che vuole Rainer Maria Rilke, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo autori di haiku dimenticando che i tre poeti citati erano intrisi di studi classici e che quindi l’educazione a sottrarre veniva loro soprattutto dai lirici greci. I loro haiku hanno un sapore troppo legato a Menandro, a Ibico e a Saffo. In uno dei volumi editi in Giappone ho accompagnato le traduzioni con un mio scritto intitolato “Perché gli haiku”, ma non è il caso di riproporlo perché troppo lungo. Dico soltanto che personalmente adopero gli haiku perché mi permettono di offrire l’osso e l’anima del senso delle cose e sottraendo riesco a dire molto più di quando addizionavo o moltiplicavo.

Gabriella Maggio

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