Benedetta adolescenza!
Come spesso in questa rubrica, parto da lontano per venirvi vicino.
Qualche tempo fa sono stato invitato dal responsabile della biblioteca scolastica dell’istituto alberghiero “Piazza” di Palermo, il professore Felice Giovenco, per parlare con i ragazzi di una quarta di un mio libro: “Il bambino di cotone”. Inutile dire quanto piacere mi abbia fatto e questo per molteplici ragioni, non ultima la possibilità di incontrare direttamente quel personaggio generalmente invisibile che risponde al nome di “lettore”. Quando si scrive, infatti, si vive reclusi per alcune settimane, non dico fisicamente, ma mentalmente, per darsi la possibilità di portare a termine un lavoro duro come la stesura di un romanzo. Questa solitudine forzata e cercata trasporta noi scrittori sconosciuti in un limbo di silenzio e meditazione che ha dell’innaturale. Personalmente non mi trasformo in un essere intrattabile e nemmeno particolarmente disattento alle persone che continuano a gravitare nel mio universo familiare, anzi. I miei sensi diventano capaci di percepire tutto quello che mi circonda in modo più evidente, con tutte le conseguenze negative che comporta una tale accresciuta sensibilità. Sento di più, vedo di più, ricordo di più, gusto di più. Questa maggiorazione dei sensi subita ha la capacità di rendere più fluida la scrittura, abilità certamente necessaria soprattutto in occasione della prima stesura dell’opera. Questo vivere in silenzio e al contempo in ascolto del mondo, non potrebbe comunque essere tollerato per tutta la vita. E’ faticoso, sebbene possa sembrare un momento particolarmente felice se osservato dall’esterno. E’ una sovrastimolazione che produce un notevole grado di stress e per tale ragione deve avere una durata limitata nel tempo, per sfruttarne i positivi risvolti in termini di produttività creativa, lasciandosi dietro le scorie che producono disistima, tendenza a rimuginare, ansia o, nei casi più gravi, uno stato decisamente depressivo, quando le cose non vanno bene, quando nessuno vuole pubblicarti. Si aggiunga il fatto che il manoscritto, una volta finito, prende una strada tutta propria, abbandonando senza sensi di colpa chi lo ha generato. Se ne va via per strade sconosciute, approdando sulle mani di quel personaggio che risponde sempre al nome di lettore, a cui l’autore si rivolge mentre scrive. Quel personaggio che ci ha fatto compagnia per tutto il tempo della scrittura e riscrittura, in veste di silenzioso ascoltatore delle nostre parole, senza mai farsi vedere, senza mai offrirsi nella carne – se vogliamo utilizzare un linguaggio ecclesiastico in cui non mi sono mai riconosciuto, eccetto per il fatto che il processo della scrittura possiede una sua liturgia – quel personaggio, quindi, è da considerarsi il tassello più importante di tutto il processo e per tale ragione richiede rispetto.
Questo personaggio senza carne e senza corpo si materializza raramente, a volte non si fa vedere neanche in occasione delle presentazioni dei libri. E’ noto infatti che alle presentazioni si va senza avere letto il libro presentato, iattura enorme per chi è chiamato a parlarne. In quell’occasione i lettori sono solo “potenziali”, magari comprano il libro, per simpatia o per affetto, ma senza per questo darti garanzia di lettura dello stesso. Ci sono volte in cui però – per una fortunata convergenza di elementi – si offre la possibilità di incontrare quelli che il libro lo hanno letto sul serio, sino all’ultimo paragrafo. Nel mio caso in genere sono molto giovani e questo mi regala un surplus di energia mentale dovuto alla freschezza delle loro osservazioni, delle loro domande e della loro ingenuità bonaria che contrasta in modo particolarmente evidente con i loro corpi e con i loro atteggiamenti che mettono in mostra una sicumera posticcia. Questi giovanissimi che ho incontrato nell’occasione di cui parlavo poco sopra erano adolescenti, categoria nei confronti della quale nutro una stima particolare, poiché i suoi rappresentanti si trovano impegnati per la prima volta nella loro vita nel processo di cambiamento che li traghetterà dalla sponda paludosa dell’infanzia alla spiaggia, punteggiata di scogli, che è l’adultità.
In molti adulti miei coetanei – che quel passaggio hanno già compiuto e purtroppo dimenticato – c’è spesso uno sguardo, nel migliore dei casi, di commiserazione nei confronti di quell’adolescenza che apparentemente non li abita più. Nel peggiore dei casi invece, quello sguardo adulto sui ragazzi è di fastidio, per il linguaggio incomprensibile che usano, per i comportamenti contraddittori e spesso provocatori che mettono in atto, per gli interessi nuovi che esprimono, per il modo innovativo di viversi la sessualità, per lo sguardo ingenuo e al contempo sapiente sul mondo, per la voce dura che fanno quando si sentono minacciati da una società anziana (troppo anziana) che non riesce a dialogare con loro ma che, in vece loro, prende decisioni che li riguardano. Per quanto mi riguarda non ho mai guardato in questo modo l’adolescenza, sebbene l’abbia definita tra amici spesso come adolescemenza, per affetto e per sana invidia per un tempo che ho vissuto e che se n’è andato via troppo in fretta. Non posseggo quello sguardo oltraggiato e accusatorio di molti miei coetanei su quella fascia d’età, perché io so per certo che l’adolescenza è davvero “l’età dell’oro”, come bene spiegavano due ricercatori alcuni decenni fa con il loro bel libro omonimo.
Ma guardiamo insieme cosa significa essere adolescenti, interroghiamoci sul perché sia un’età dell’oro e, soprattutto, cerchiamo di capire perché tutti noi siamo degli adolescenti anche da adulti. Cosa abbiamo in comune con loro? Quali caratteristiche di quell’età ci rimangono appiccicate addosso?
Qui non c’è lo spazio per offrire un’analisi approfondita della questione, ma certamente c’è il tempo per dare una fotografia dei principali elementi che caratterizzano l’adolescenza e, alla fine di questo discorso lievemente tecnico, vi sarà chiaro (spero) perché, quando parliamo di adolescenza, in definitiva stiamo parlando anche di noi adulti.
Primo elemento. L’adolescente si trova, come già detto, in fase di transizione da infante ad adulto e come tutti sanno, ogni transizione, anche quella definitiva dalla vita alla morte, è pur sempre temporanea. Il lasso di tempo varia stanti le legittime differenze individuali. Ma alla fine la transizione finisce per tutti, salvo poi cominciarne un’altra, e così via. In genere questi periodi si chiamano “crisi”, ma il termine fa troppa paura per essere considerato positivo anche se in realtà lo è. Crisi infatti deriva dal greco e significa “scelta, decisione”. In definitiva la crisi è un momento cruciale della nostra esistenza, che può presentarsi più volte, in cui è in gioco la nostra capacità di analizzare, di distinguere, di giudicare per mettersi nelle condizioni di scegliere, appunto.
Secondo elemento. L’adolescente si trova per natura dinanzi alla necessità di cambiare, di trasformarsi. Deve farlo, altrimenti soccomberà a quella che il grandissimo Michele Mari in un bellissimo libro ha chiamato “sanguinosa infanzia”. Non si tratta solo di trasformarsi nel corpo, quello è un processo contro il quale nessuno potrà mai opporsi. Si tratta soprattutto di una trasformazione dello sguardo, su di sé e sul mondo circostante. Sfida ardua, non vi pare?
Terzo elemento. Per cambiare, i ragazzi sono chiamati a fare delle scelte. Ma scegliere a quell’età è vissuto come un dramma. Lasciare le sicurezze possedute sin dalla nascita è difficile. Per i più fortunati, la famiglia aiuta ad anticipare i loro bisogni, a sostenerli psicologicamente, economicamente. Ma quando la famiglia non c’è (e l’assenza potrebbe non essere fisica, ma psicologica), le cose per il povero adolescente si complicano maledettamente e magari finisce con il fare scelte sbagliate: di amicizie, di percorsi di studio, di amori, per dirne solo tre a titolo di esempio.
Quarto elemento. L’adolescente è in transito dall’infanzia all’età adulta, è chiamato a fare scelte per assecondare la sua necessità di cambiare ma, al contempo, ha una paura fottuta di cambiare.
Quest’ultimo punto mi fa venire in mente un episodio vissuto con uno dei miei figli che coltiva l’imperdonabile vizio del fumo. Per aiutarlo a mettere fine a quell’abitudine dannosa, ancorché elettronica, gli diedi a leggere un libro che prometteva di fare smettere di fumare già all’ottavo capitolo. Non ho mai creduto nei cambiamenti repentini prodotti negli esseri umani dalla lettura di un libro, ma mi sono dovuto ricredere. No, mio figlio non ha smesso di fumare dopo averlo letto, ma ha smesso di leggerlo non appena è arrivato al settimo capitolo. La cosa vi farà certamente sorridere, ma a me no. Era a un passo così da compiere l’opera, ma si è fermato un momento prima del traguardo. Lui stesso mi ha spiegato come mai si fosse fermato. Mi disse che stava per prendere definitivamente coscienza del fatto di essere un autentico cretino, perché fumatore, e ha avuto paura. Sì, ha semplicemente avuto paura di superare quell’ultimo limite che lo avrebbe fatto cambiare per sempre. Ecco cosa intendo quando parlo di paura del cambiamento negli adolescenti che, per natura, sono destinati a mutare pelle e mente. Qui non si tratta solo di cambiamento di voce o di arrivo del menarca, qui si parla di cercare, in quel difficile momento di transito, una nuova immagine di sé che sappia essere coerente, unita, piena di senso, così come lo è stata l’infanzia sino a un momento prima.
Dall’esterno questi poveri adolescenti, impegnati in difficili compiti di sviluppo, li percepiamo confusi e i genitori ansiosi spesso chiedono direttamente a loro le ragioni di questo disorientamento. Ma si può essere più maldestri di così? I ragazzi che stanno costruendo a fatica una nuova storia di sé non hanno ancora parole per descrivere e spiegare ciò che stanno vivendo, proprio perché lo-stanno-ancora-vivendo!
Chiedete a un’artista qualsiasi di parlare della propria opera mentre la sta realizzando, come minimo vi manderà a quel paese, con gentilezza ovviamente. Perché stareste chiedendo l’impossibile. Magari, quando tutto è fatto, l’opera è compiuta, le parole verranno per spiegare agli altri, ma principalmente a sé stessi, che cosa si è realizzato e perché lo si è fatto. Ma sono considerazioni postume, se così possiamo dire, con l’aiuto di quel senno di poi che ci viene sempre in soccorso.
Quindi, da queste poche osservazioni potremo dire, senza tema di smentita, che l’adolescenza è comunque un periodo della vita un po’ di merda, perché intriso di dolore generato dal conflitto tra la voglia di cambiare e la paura di farlo. Ma il dolore, come direbbe un vecchio saggio, se non ti uccide ti fa crescere, e quindi te lo devi sorbire come hanno fatto innumerevoli persone prima di te. Inoltre il dolore è da considerarsi una prova, una prova di abilità al transito. Sperimentando il dolore del cambiamento verifichiamo se siamo in grado di affrontare, tollerare e vincere questa battaglia per il cambiamento, senza soccombere alla sfida.
Tutto questo discorso a che pro?
Bella la domanda, facile la risposta.
Cari adulti dallo sguardo commiserevole tenetevi forte, perché sto per dare un brutto colpo al vostro ego ipertrofico e sussiegoso. L’adolescenza in realtà non finisce mai. Sì, avete capito bene. Mai, e vi dico anche perché. Tre le ragioni principali:
1) Il dramma della scelta non è affare che riguarda solo l’adolescente, ma tutti gli esseri umani, di qualsiasi età. Soprattutto in tempi instabili come i nostri (che durano da un tempo lunghissimo ormai, almeno dalla nascita del capitalismo), cambiare lavoro, casa, sport, partner è pratica che riguarda tutti, a prescindere dall’età.
2) Siccome tutti siamo chiamati a fare delle scelte lungo l’arco di tutta la nostra vita, va da sé che ognuno deve essere pronto ad accogliere il cambiamento e chi non lo fosse magari non soccomberà più alla sanguinosa infanzia, ma di certo morirà schiacciato dal peccaminoso invecchiamento precoce della curiosità e dall’incapacità di adattamento.
3) Dato che siamo chiamati sempre a fare delle scelte e dobbiamo essere disponibili al cambiamento – esattamente come gli adolescenti – abbiamo, come loro, paura di cambiare. Viste le premesse di cui sopra, perché non dovrebbe essere così? Chi non teme il cambiamento alzi la mano. Bene, da qui non vedo nessuno.
Amici adulti in ascolto, dobbiamo fare ancora i conti con gli stessi problemi che credevamo avessimo superato decenni or sono. Ma mi si dirà, ci saranno pure delle differenze tra noi che adulti già lo siamo e quelli lì, più indietro, che adulti diventeranno?
Certo che c’è qualche differenza. Anzi, mettiamola così: la differenza c’è ma non tutti sanno come usarla. Perché magari riflettono poco su di essa, non ne parlano mai con nessuno per confrontarsi e la danno per scontata, ma così facendo, finiscono per non renderla quel tesoro a cui fare affidamento quando si tratta di superare le difficoltà poste dall’eterna adolescenza, in modo più fluido di come gli adolescenti, quelli veri, non sanno ancora fare. Questo tesoro di cui parlo è l’esperienza che è qualcosa di molto concreto, fatto di accumulo lento e progressivo di strategie di risoluzione dei problemi che un adulto “dovrebbe” possedere e di cui dovrebbe essere cosciente.
Ma come ci ha insegnato il grande Oscar Wilde con uno dei suoi geniali aforismi: “L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile che si possa avere. Prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione.”
Mauro Li Vigni