AMORE
AMORE
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)
Commedia, Inferno, V (vv.100-107)
«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
Che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Sono versi celebri, del più celebre tra i poeti. Dante è il padre della poesia italiana, e la sua Commedia rimane il capolavoro insuperato della nostra letteratura, che tutto il mondo conosce. L’amore è forse il tema dantesco più importante, quello che genera tutti gli altri temi. Attorno all’amore si coagulano, nel poeta fiorentino, fede, sentimento, umori politici, cultura, insomma tutto il repertorio dei suoi interessi umani. Che solcano il tempo per continuare ad interrogare l’uomo contemporaneo.
L’ambientazione è infernale. Siamo nel secondo girone, abitato dai lussuriosi, peccatori che hanno fatto prevalere la passione d’amore sulla ragione. Dante e la sua guida, il poeta Virgilio, si imbattono in una coppia di giovani che volteggiano inseparabili nella bufera infernale, contrappasso della vorticosa passione erotica che ha segnato le loro esistenze terrene. Si tratta dei celebri Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, protagonisti di un efferato episodio della cronaca medievale, l’assassinio perpetrato dal marito di lei e fratello di lui, Gianciotto, che li colse in flagrante adulterio.
Qui Francesca, in tre terzine densissime, sintetizza la loro tragedia, ma nel farlo offre anche una sua lettura della dinamica di Amore. La parola si ripete anaforicamente tre volte, ad inizio di ogni terzina, ed ogni volta precisa il ruolo che ha avuto nelle vite dei due amanti.
Amare non è alla portata di tutti, spiega Francesca. Trova una via più rapida in un “cor gentil”, espressione che rimanda all’amore cortese, sentimento che alberga volentieri presso gli animi nobili quale doveva essere Paolo, in cui il cuor gentile si associa all’attrazione che la bellezza di Francesca esercitò su di lui. E il “modo” di questa attrazione, per la sua intensità e per le conseguenze che ha generato, ancora è fonte di sofferenza.
Amare, continua Francesca, è irresistibile per chi è amato. È posto qui un principio di reciprocità. I due amanti non seppero resistere all’attrazione della reciproca bellezza. La potenza di questa passione li portò alla morte. E chi li ha uccisi a sua volta espierà all’inferno il peccato di omicidio.
È facile attribuire a Dante solidarietà verso i due cognati. Ma in realtà la loro collocazione è frutto del preciso convincimento dantesco che amare non può significare essere trascinati in un vortice privo di qualsiasi governo della ragione. Il vortice della lussuria. Dante ha ascoltato con gentilezza e tenerezza il racconto di Francesca, ma non è quello l’amore in cui egli ormai, negli anni della maturità, crede. Non a caso i due amanti per l’eternità sono travolti e trascinati dalla bufera.
Opportunamente è stato scritto che “non è condiscendenza emozionale o commozione assolutoria; è consapevolezza dell’umana fragilità” (Widmann). Dante ha posto in scena la vicenda di Paolo e Francesca per far vedere cosa, per lui, non può e non deve essere Amore con la a maiuscola. Potrà risultare impopolare o sorprendente riportare il lettore a questa prospettiva dantesca, ma molto più mistificante, per quanto più romantica, apparirebbe una lettura che facesse dei due cognati veri emblemi di cosa vuol dire – per Dante che innamorato lo fu eccome – essere innamorati.
Ciò non implica un’inattualità della matura concezione dantesca dell’amore. Semmai implica un’esigenza di adattamento a tempi, come i nostri, molto meno preoccupati, rispetto ai tempi danteschi, dello spessore etico e spirituale del sentimento amoroso. L’adattamento trae le mosse dall’espressione “la ragion sommettono al talento” con la quale il poeta definisce i “peccator carnali”.
Talento indica “desiderio”, parola trattata nel precedente contributo di questa rubrica. Amore per Dante è qualcosa di evoluto rispetto al semplice “talento” o “desio”. È desiderio che non si fa trascinare dalla pulsione ingovernata. È capacità di stare al di qua della fusionalità emotiva. Con uno sguardo desiderante, senza alcun dubbio, ma mai privo di intelligenza, soprattutto di intelligenza emotiva, che tiene chi ama al riparo della pulsione di consumo, o di possesso, che tanta violenza – e si vede – è capace di generare.
Lo sguardo d’amore dantesco sa essere contemplativo senza essere sublimato. Non ignora il piacere e la bellezza corporei, ma non ne fa idoli cui sacrificare la profondità spirituale. L’amore dantesco non può essere l’amore come oggi lo conosciamo, e sarebbe ingenuo pretenderlo. Ma all’amore dantesco si può guardare tutte le volte che la cronaca oppure l’esperienza personale ci fanno imbattere in amori che si definiscono tali solo perché “si è persa la testa”. Per Dante se si perde la testa si perde proprio l’amore.
Maurizio Muraglia