La colpa di amare

“Ce la fa a raccontarci come è andata?

La domanda rimbalzava addosso a Tiziana come l’ennesimo schiaffo.

Raccontare il dolore è possibile? Dopo quella notte in cui tutto attorno a sé si era rotto, se lo chiedeva spesso. Non ci era riuscita. Nemmeno alla sua migliore amica, nemmeno al suo psicoterapeuta, nemmeno a suo figlio. Era rimasto tutto congestionato come muco virale dentro. Il muco era sceso dalle vie respiratorie dritto al cuore. Aveva trovato una ignota corsia preferenziale. Il cuore si era infettato e no, non c’erano antibiotici o antiinfiammatori che riuscissero a scioglierlo per guarire. 

Quella notte, una banale discussione, una come tante. Tiziana non ricordava neanche più quale fosse il motivo. Aveva solo visto una furia cieca accanirsi su di lei, dopo una serata trascorsa in un locale in riva al mare. Musica, qualche cocktail sotto il cielo d’agosto, gli occhi di altri uomini di sfuggita che si posavano sul suo abitino leggero accarezzato dallo scirocco. Serata che lei sperava tanto si concludesse in villetta col suo compagno tra coccole complici e confidenze. Niente di tutto questo. Ricordava solo le urla, gli strattoni poi le parolacce, i pugni che la colpivano ripetutamente sul volto e sulla pancia. Mentre la macchina correva impazzita tra labirinti di strade, senza più una direzione di marcia. Una scheggia impazzita. Giacomo era ubriaco e la colpiva ripetutamente. La forza della sopravvivenza. Tiziana aveva aperto la portiera dell’auto e si era scaraventata fuori. Piuttosto che morire ammazzata di botte era preferibile morire rotolando giù in qualche scarpata. L’istinto primario era solo scappare, salvarsi da quella furia senza giustificazioni, da quelle urla orribili, da quelle offese senza ritegno. Salvarsi dal carnefice. Glielo aveva detto diverse volte a Giacomo che non doveva superare la soglia. Che c’era qualcosa che non andava. Che beveva troppo. Che non sapeva gestire la rabbia, la frustrazione, il rifiuto, la gelosia. Che doveva andare in cura se voleva che lei non si buttasse da una macchina in corsa. Non poteva andare sempre così. Era stanca, sfibrata, logora. Violenze verbali continue. Silenzi punitivi. Notti in cui dormiva chiusa in camera da sola. Poi la quiete per giorni. La dolcezza, le premure, le cene preparate, le lacrime, le scuse. Tutto rientrava nella normalità di una convivenza agli occhi degli altri come tante. “Certo, si litiga nelle coppie”. “Certo è normale scontrarsi ed essere in disaccordo.” “Certo ad una certa età, ognuno ha le sue abitudini, i propri comportamenti strutturati.” “Ma se c’ è amore si supera tutto.” 

Il Commissario Dominìca guardava Tiziana con il viso tumefatto e ripeteva:

“Ce la fa a raccontarci come è andata quella notte?”

“Cosa è successo nel locale e poi in macchina?”

Tiziana si sentiva sporca, gli occhi puntati addosso, il viso gonfio e dolorante, lividi ovunque. Ecchimosi dentro l’anima. No, non ce la faceva a ripercorrere l’inferno. A dire che verso le 4.00 di mattina solo una macchina in quelle stradine era venuta in suo soccorso. Si era messa a correre e non sapeva neanche per quanto tempo. Finché tra uliveti, dirupi scoscesi e stradine di campagna aveva ripreso la statale verso la città. Si era guardata e aveva la borsetta appesa al collo. Come fosse la boccetta dai cani San Bernardo. Non ricordava il pin del cellulare. Maledetta memoria che era andata in corto circuito. Poi il viso di suo padre. Ecco il pin. Era la data di nascita di suo papà. Aveva digitato quei numeri tremando. Non era più sicura ci fosse batteria sufficiente né che potesse prendere la linea lì dove era finita. Invece sì. Quando il Cielo decide di aiutarti. La chiamata alla migliore amica. La voce assonnata di Diletta. “Mi ha picchiato, aiutami, ti prego Di’, ti prego, ti prego.” Poi un pianto a dirotto, singhiozzi e dall’altro capo del telefono: “Dimmi solo dove sei,Tizi, aiutami a capire. Nasconditi, mettiti in un posto sicuro, arrivo. Bastardo, è un bastardo!” 

Un’altra scheggia impazzita. Dopo quella che vuole distruggerti, quella che ti salva dalla strada quasi all’alba. Ti salva dalle botte del tuo compagno, dall’incubo di una notte in un locale in riva al mare. Una corsa folle verso l’ospedale poi il buio totale. 

Ora tutte quelle domande che rimbalzavano addosso su un corpo già pestato, violato, umiliato, fatto a pezzi. 

L’unica risposta che Tiziana visualizzava nella sua mente confusa era: “Colpa mia che mi sono innamorata di un mostro.” Colpa. Colpa. Colpa. Del resto aveva notato l’uso senza ritegno di alcol, la gelosia fuori controllo, le dinamiche di possesso, la violenza verbale. Poi le liti per difendere il proprio modo di vestirsi, di parlare al telefono. Le liti per una emoticon usata. Per una risposta scritta e rivolta agli amici sui social. Per Giacomo era tutto una mancanza di rispetto. Il modo in cui lei parlava, il modo in cui si truccava, il modo in cui salutava gli amici di sesso maschile. E se lo amava davvero non poteva permetterselo. Niente scollature. Sono da poco di buono. Niente caffè con i colleghi. Non esiste proprio. Niente abitini succinti. Niente palestra con le amiche. Niente telefonino con password privata. Tutto nelle sue mani. La vita di Tiziana gli apparteneva. Questo era l’amore. Rispetto e abbassare la testa, chiudere la bocca, ingoiare il rospo. Sopportare. Capire. Perdonare. Tanto poi la sbronza passa. Le parolacce sono solo parolacce. Tanto poi le cose dette nella rabbia non sono vere. Tanto l’importante è che non sei sola e ovunque vai, hai il tuo compagno accanto. In meno di due anni, Tiziana non aveva più nulla di suo. Gestiva tutto Giacomo. Dalle case, ai documenti, dalla spesa ai soldi, agli inviti, ai viaggi, ai vestiti da indossare, agli impegni da programmare. La vita di Tiziana si era accartocciata. Si era ridotta ad una pallina di carta nelle mani di Giacomo. Ora aveva scoperto anche che quelle mani sapevano picchiare. Mettere pugni e schiaffi. Quelle mani erano peggiori delle ruote tagliate quando lei decise di lasciarlo. Quelle mani erano mani violente. E la colpa era stata innamorarsi dell’uomo sbagliato. Dopo che lo aveva cacciato di casa, Tiziana era stata pedinata, minacciata, chiamata di notte e giorno, seguita nei suoi movimenti, nei suoi incontri. Dopo l’incubo di quella notte d’agosto, altri incubi si erano sovrapposti come i mattoncini di lego, l’uno sull’altro.

Aveva dovuto cambiare tutto. Le sue abitudini, i suoi comportamenti, il suo modo di vivere. Le notti erano minacciose tanto quanto i giorni pieni di ansia. Tiziana vacillava tra sensi di colpa, stato di allerta continuo, paure, ricordi orribili. “Non avrebbe dovuto provocarlo. Colpa sua.” Così le fu detto da molti.

Sindrome da stress post traumatico prolungato. Una diagnosi, dei farmaci, trasferimento in un posto sicuro. Nuovo stile di vita. Lontana da quell’inferno, lontana perfino da suo figlio che s’era trasferito dall’ex marito per recuperare fiato. Tutti si erano dovuti adattare ad una nuova realtà. Rinunciando a tanti pezzi di libertà personale. Tiziana era rimasta in una bolla di dolore da cui non era facile uscire. La bolla era dentro, non si vedeva. Il muco virulento incastrato nel cuore non si vedeva nemmeno. La vita doveva continuare. Bisognava riprendere il lavoro. Uscire a poco a poco in sicurezza. Tornare alla normalità. Perdonarsi perché alla fine è sempre la parte più difficile e dolorosa. Giacomo, avrebbe subito un processo. Forse la giustizia avrebbe fatto il suo legittimo corso. Forse avrebbe pagato per il male procurato. Per quella insana e furiosa violenza. Ma la colpa di amare sarebbe rimasta addosso, sulla pelle di Tiziana per chissà quanto tempo. Era quella colpa che nessuno Gip, nessuno P.M. avrebbe potuto togliere. Nessuna sentenza. Nessun codice rosso. Nessun risarcimento danni morali e fisici. Nessun Commissariato. La colpa di amare era più del tatuaggio che s’era fatta dopo l’inferno vissuto. E se l’amore era davvero tutto questo, non avrebbe mai più voluto amare, fidarsi, affidarsi. Meglio condurre la vita come faceva Diletta, tra un letto e l’altro, senza costruire nulla. Con spensieratezza e leggerezza. Meglio divertirsi senza impegno. Forse doveva ristrutturare tutto dentro sè stessa. Non bastava essere sopravvissuta. Occorreva nascere ancora, nuova, intera, senza lettera scarlatta, senza quel muco virulento nel cuore, senza quello stato di paura perché se è capitato una volta, potenzialmente può capitare ancora. E ancora è troppo. Ancora non è più concepibile. Non si può più raccontare la storia che il mostro diventa mostro all’improvviso. Il mostro è mostro tra le cene preparate e la casa gestita a puntino, i vestiti comprati e i viaggi programmati. Il mostro è un uomo. Un uomo violento. Un uomo che non ce la fa ad accettare che sei un altro essere umano non un oggetto, non una proprietà privata. Il mostro va lasciato subito. Non esiste: “Cambierà, si sta impegnando, lo salverò, sta cercando di crescere, migliorare, di essere un uomo diverso.”  E non toccava a Tiziana essere la psicoterapeuta di nessuno. La crocerossina di nessuno. La mamma di nessuno. Se non di suo figlio. 

“Una storia come tante”, alla fine si dissero l’Ispettore Dominìca e il collega, guardandosi negli occhi. “Sai quante ce ne sono di donne così? E vengono qui a chiedere aiuto quando già le hanno prese, quando già quello è uscito di testa. Ma non lo capiscono prima?” 

Doveva esserci nella testa di tutti, evidentemente, una segreta profonda colpa nell’amare qualcuno che ad un certo punto usa le mani non per accarezzare, abbracciare, proteggere ma per picchiare. 

Se solo Tiziana l’avesse trovata quella colpa, quel click che scatta all’improvviso, forse si sarebbe potuta salvare prima dell’inferno subìto e forse avrebbe potuto aiutare tante altre donne come lei vittime di violenza. Forse non era una colpa amare. Forse il sistema voleva che la vittima fosse colpevole tanto quanto il carnefice. Ma una vittima è una vittima. Un carnefice, un carnefice. Una donna innamorata, innamorata. Un alcolizzato, un alcolizzato. Un uomo violento, un violento. Forse bisognava usare le parole corrette per ogni cosa e ripartire da lì. Poi scegliere di amarsi e prendersi cura di sé. Poi perdonarsi. Certo, la strada era lunga. Ma Tiziana non voleva più sentirsi in colpa. Perché la violenza non ha giustificazioni, alibi, scorciatoie. Non si merita. Non si sopporta a testa china. Non si provoca. Si denuncia. Con coraggio e forza. Il resto poi viene passo dopo passo.  

“Sì, ce la faccio a raccontarvi tutto, – disse – rivolta all’Ispettore”.

“Ce la faccio.”

Tiziana cominciò la sua nuova vita così. Permettendosi il lessico della verità, non più delle colpe. Le parole possono salvare.  

Bia Cusimano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *