Dell’autobiografismo e dei suoi rischi

Quando nel 2005 ho avuto la fortuna di pubblicare il mio primo libro, mi sono confrontato con la scrittura autobiografica, la forma di scrittura più amata da chi ha velleità di pubblicazione e non sa proprio da dove cominciare. Il grande Michele Mari, scrittore immenso che tiro sempre in ballo ogni volta che ho necessità di dire qualcosa di intelligente e profondo per fare bella figura, ha detto una cosa simile alla seguente: “Se non riesci a tirare fuori nulla dalla tua infanzia, allora è meglio che lasci perdere”. Quel “nulla” si riferisce ovviamente alla capacità di tirare fuori storie che valga la pena leggere, partendo dalla tua esperienza personale, soprattutto da quel periodo della vita. Senza dubbio la prima parte della nostra vita è quella che ci ha segnato maggiormente, che ha condizionato cioè, in modo indelebile, il nostro modo di essere al mondo, di vedere le cose, che ha formato il nostro metro di giudizio sulla nostra vita e su quella altrui. Per tali ragioni, l’infanzia risulta essere un ricettacolo pressocché infinito di aneddoti – reali o immaginari, poco importa – da cui partire per raccontare delle storie. 

Qualcuno potrebbe dire che la vita adulta continua ad essere piena di eventi degni di essere ricordati. È vero, però il modo che abbiamo di accettare o rifiutare questi eventi, di condividerli o di tenerli nascosti, di gioirne o di soffrirne, dipende da come abbiamo vissuto la nostra prima infanzia. Prendiamo, solo a titolo di esempio, il lutto. Chi da bambino, suo malgrado, ne ha vissuto diversi per ragioni che in questa sede non ci interessa esplorare, pensate che abbia lo stesso punto di vista sulla morte rispetto a un bambino che invece non ne ha vissuto nemmeno uno? Che della morte non sa nulla se non quello che gli hanno raccontato gli adulti (se lo hanno fatto, ovviamente). E che dire poi dell’esperienza dell’abbandono, che della morte è parente stretta. I bambini che l’hanno subita da parte di figure genitoriali incapaci o fuggiasche, credete che possano vivere le esperienze di distacco della vita adulta in modo identico a quello di un bambino che è cresciuto serenamente all’interno della propria famiglia con entrambi i genitori al suo fianco?

Ogni singolo evento della vita adulta, questi due bambini lo leggeranno attraverso lenti diverse, più timorose o più rassegnate, più ansiose o più serene. In definitiva, con diversi gradi di sorpresa e traumatizzazione, con più o meno maturità. Se gli stessi bambini, una volta adulti, si metteranno alla scrivania a battere sulla tastiera di un computer con lo scopo di scrivere un racconto che parli di morte o di abbandono, lo faranno con sfumature profondamente diverse, in forza delle loro diverse esperienze personali infantili in merito a quei soggetti.

Altra questione. Quando si affronta la scrittura di racconti o romanzi a partire da elementi fortemente autobiografici, si può fare facilmente l’errore di confondere la scrittura per sé dalla scrittura per gli altri. Nulla vieta di narrare eventi della nostra vita e di questi farne romanzi, ma il successo che si può avere tra i lettori dipende da quanto il lettore si senta destinatario di quella scrittura. L’autobiografismo terapeutico, quello per sé, serve a chi scrive per ricostruirsi una vita psicologica sana, partendo dai punti di fragilità che scrivendo vengono rivisitati, analizzati, approfonditi al fine di poterne fare uso per successive riflessioni, magari con il proprio terapeuta. Questo tipo di scrittura può anche non tenere conto degli elementi portanti di un racconto ben fatto, ovvero della sua struttura che si compone – nella sua forma più semplice – di un inizio, di uno sviluppo centrale e di una conclusione. Questo genere di scrittura autobiografica quindi se ne infischia del lettore, non si cura di lui perché l’unico lettore a cui lo scrivente si riferisce è sé stesso. 

Ed eccoci arrivati al primo problema che si presenta spesso in questi casi di autobiografismo egoista, come mi piace definirlo con un’espressione un po’ forte. Il problema sta nel fatto che qualche volta i testi sono pure scritti bene, hanno una forma sintattica più che accettabile e l’autore è stato in grado di sfoggiare un lessico forbito che lo spinge, ahimè, a far leggere alcune pagine a qualche amico. Ed è proprio in questa apertura verso l’esterno che si annidano i problemi. Ecco quali. 

L’amico chiamato a leggere il passaggio si rende conto di aver sotto gli occhi qualcosa di scorrevole, comprensibile, insomma bello, e questa sensazione gli fa compiere un gesto pericoloso: lancia un feedback all’autore del testo, invitandolo a rendere pubblico il suo scritto. Questo apprezzamento entusiasta è un gesto di amicizia lodevole e sincero, e come tale va apprezzato, ma allo stesso tempo non vanno sottovalutati gli effetti nefasti che esso produce. L’autore del testo, infatti, preso anche lui dall’entusiasmo, decide che sì, è davvero cosa buona e giusta pubblicare quello scritto, senza riflettere su un aspetto fondamentale e che non ha a che fare con la sintassi corretta o il lessico forbito, ma sul perché cavolo lo deve pubblicare. Quali sono i motivi che dovrebbero spingere un perfetto sconosciuto, un lettore qualsiasi che non è un tuo amico, a leggere quelle pagine? Cosa cacchio ci dovrebbe trovare di interessante nella tua vita, raccontata in pagine e pagine di dettagli ed eventi? Perché lo devi ammorbare con quella roba che è servita a te per passare un po’ il tempo davanti al computer o per mantenere una certa igiene mentale, riguardando al tuo passato recente e lontano?

E adesso passiamo ai consigli di lettura. Parliamo dell’autobiografismo di valore, ma anche dell’autobiografismo di paccottiglia o senza interesse.

Ci sono in giro dei supercampioni dell’autobiografia altruistica, come mi piace definirla, proprio perché sono testi che hanno un valore per gli altri. Questi supercampioni pubblicano le loro opere ottenendo un successo planetario tra il pubblico di lettori e anche presso la critica. Sono testi che raccontano vite eccezionali con un linguaggio coinvolgente, trame avvincenti, personaggi indimenticabili al punto che non vedi l’ora di sfogliare un’altra pagina per vedere cos’altro succede. Un po’ quello che avveniva quando da ragazzi leggevamo i romanzi picareschi, per intenderci, quelli di Daniel Defoe autore del celeberrimo “Robinson Crusoe” e dell’altrettanto famosa storia di “Moll Flanders”.

In alcuni casi però ci sta la fregatura, perché a scrivere il racconto non sono i diretti interessati ma i ghost writers, quegli scrittori fantasmi che si fanno pagare una barca di quattrini per scrivere le memorie di qualcun altro. L’esempio più famoso è rappresentato dall’autobiografia fiume del tennista Andre Agassi dal titolo “Open” che in realtà è stata scritta dal giornalista premio Pulizer J. R. Moehringer. Il quale, tra l’altro, ha scritto un romanzo bellissimo dal titolo “Il bar delle grandi speranze”, in cui racconta un pezzo della sua vita, dai sette ai venticinque anni di età, spesa intorno a un bar della città dove è diventato uomo (e alcolizzato).

Volendo spostare l’attenzione sul versante europeo dell’autobiografismo, vale la pena di evidenziare la presenza sullo scenario di cui ci stiamo occupando, di un peso massimo dell’autofiction – termine coniato dallo scrittore francese Serge Doubrovsky nel 1977 – ovvero di quel genere narrativo in cui l’autore stesso è il protagonista delle vicende narrate. Nell’autofiction però, come la definizione stessa indica, si osserva un sapiente mescolamento tra realtà e finzione, tra eventi autobiografici del tutto veri fusi con eventi realistici, ma inventati. Il peso massimo di questa forma bellissima di romanzo è certamente il francese Emmanuel Carrère, a cui si affianca il nostro Walter Siti. 

Insomma due maestri di scrittura che non dovrebbero mancare dagli scaffali di chi ambisce a pubblicare qualcosina, un raccontino, un romanzetto, delle poesiole. Tutti diminutivi che, senza voler essere offensivi, risultano indispensabili se vogliamo accostarci a maestri di questo calibro.

Per concludere mi preme mettervi in guardia su un tipo di autobiografia davvero illeggibile dalla quale spero sappiate stare alla larga. 

Ci sono personaggi che hanno fatto la storia nel loro settore di competenza e che hanno deciso, nostro malgrado, di scrivere (o farsi scrivere) un libro di memorie per raccontare le loro gesta. Tra questi, va da sé, ci sono i calciatori, sui quali non spendo nemmeno una sillaba poiché preferisco guardarli mentre corrono sul campo da gioco in modo del tutto silenzioso, piuttosto che sentire la loro voce mentre raccontano la loro vita. Gli insospettabili invece, sono i direttori d’orchestra super famosi le cui vite, sebbene importantissime per la storia della musica, sono di una noia mortale. Prendete per esempio quella del grande direttore indiano Zubin Mehta. Giovane prodigio della musica, vincitore di premi, quindi titolare di incarichi di direzione altrettanto importanti e via dicendo, fino ai giorni nostri. È tutto un susseguirsi di eventi prevedibili di successo la cui conoscenza non aggiunge nulla alla mia esistenza. 

Se proprio volete conoscere la vita di un direttore d’orchestra vi consiglio invece di leggere una delle tante biografie di Arturo Toscanini, non fosse altro perché ha mandato a fanculo quel criminale di Mussolini, rifiutandosi di suonare l’inno fascista in apertura del concerto di commemorazione dell’artista Giuseppe Martucci, e per questo fu pure aggredito da una banda di fascisti. Ecco, quelle sì che sono vite interessanti. Ma, come avete potuto notare da soli, il grande Toscanini non si prese mai la briga di scrivere una sua autobiografia perché, evidentemente, riteneva più importante la musica.

Mauro Li Vigni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *